Ho vissuto poco, e tutti si ricordano di me perché sono morto.
Non mi piace, e comunque nessuno guarda mai me, o mio fratello. Tutta l’attenzione è per mio padre, il grande sacerdote Laocoonte. Nel nostro ultimo giorno era stato l’unico a capire che quel cavallo di legno, che avevamo trovato sotto le mura della nostra città, Troia, non era affatto un regalo dei Greci.
Però i primi a morire siamo stati noi, mio fratello e io. Strangolati da quei serpenti – non ne avevo mai visti di così grandi – mandati dagli dei per zittire nostro padre. La guerra doveva finire in modo diverso, e nemmeno un sacerdote poteva mettersi in mezzo.
Noi però in quella guerra di adulti non avevamo mai neppure combattuto. “Troppo piccoli”, ci avevano detto. E in effetti, nemmeno in due eravamo riusciti a sollevare lo scudo di bronzo di una guardia del tempio, un giorno che aspettavamo nostro padre.
Fa niente, tanto le armi non mi interessavano. Quella era roba da grandi, e pure noiosa. Io mi divertivo di più a giocare a rincorrerci tra le colonne del tempio: erano enormi, e riuscivamo a nasconderci anche in due dietro una colonna sola. Ma attenzione, senza farci beccare: altrimenti i sacerdoti ci avrebbero rimproverato. E più tardi nostro padre se la sarebbe presa solo con me. Sono il fratello maggiore, quindi era sempre colpa mia, no?
Conoscevo ogni angolo di Troia. Quando con mio fratello accompagnavamo la serva a fare compere, appena lei si fermava a guardare qualcosa fuori da una bottega, via! Partivamo per le nostre esplorazioni: cercavamo nuovi cortili, e vicoli dove non eravamo mai stati. Correvamo velocissimi sulla terra battuta delle stradine. Sentivo un brivido correre lungo la schiena, il brivido delle cose nuove e belle. Adoravo quella sensazione. Tutto quello che si trovava all’interno delle mura non aveva più segreti per noi. Ma al di là, quante cose c’erano ancora da scoprire?
Non vedevo l’ora che la guerra finisse. Sapevo già cosa avrei fatto, quando finalmente si fosse conclusa: avrei indossato il mio mantello da viaggio e sarei partito con mia mamma, mio fratello e un servo, per andare a trovare gli zii lontani. Io gli zii manco me li ricordavo, volevo solo uscire da quelle mura e andare nei posti di cui mamma ci raccontava spesso. La casa dove lei era cresciuta, una nuova città, le montagne che circondavano la pianura… Era tutto là fuori, pronto ad aspettarmi.
Invece, le mura non le ho mai oltrepassate. Ho fatto solo qualche passo alla loro ombra, e poi buio per sempre.
Ho vissuto poco, e tutti si ricordano di me perché sono morto. Ma vorrei essere ricordato perché, anche se per poco, sono stato vivo.
Di questi ragazzi non si ricorda neppure il nome. La loro sfortuna? Essere figli del sacerdote troiano Laocoonte, ai tempi della guerra di Troia. Laocoonte si era accorto che i Greci, donando quello strano cavallo di legno, stavano in realtà ingannando i Troiani, e provò in ogni modo a opporsi ai suoi concittadini che volevano farlo entrare in città. Ma invano. Gli dei erano con i Greci. La fine di Laocoonte e dei suoi figli è raccontata nel secondo libro dell’Eneide, il capolavoro del poeta latino Virgilio.
A mostrarci i loro volti ci pensa però questo splendido gruppo scultoreo, realizzato probabilmente nel I secolo a.C. Li fotografa nel marmo insieme al padre mentre lottano per divincolarsi, invano, dalle spire dei serpenti mostruosi mandati dagli dei.
La riscoperta di questa statua fece scalpore nella Roma del Cinquecento: tra i primi che accorsero ad ammirarla mentre ancora riemergeva dal terreno, durante gli scavi di una vigna, ci fu persino il grande pittore e scultore Michelangelo. La scultura venne poi acquistata da papa Giulio II, un vero intenditore d’arte, e divenne parte del primo nucleo di opere antiche dei Musei Vaticani.
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