Il mito di Troia al British Museum

8 Gennaio 2020
Una mostra al British Museum invita ad analizzare la realtà storica del mito di Troia, ma soprattutto a interrogarsi sul modo in cui vengono raccontate le guerre, ieri come oggi

Fino all’8 marzo 2020 è in mostra al British Museum di Londra Troy – Myth and Reality, un progetto espositivo ambizioso che si prefigge di ripercorrere i tremila anni di storia del mito di Troia.

Il mito di Troia

Si suddivide in tre percorsi principali corrispondenti a tre momenti di riflessione sulla dicotomia mito/realtà: il mito così come raccontato nell’antichità classica; il mito della riscoperta della città da parte degli archeologici moderni sulla collina di Hissarlik in Turchia; il mito nell’arte e nella letteratura dal Medioevo al giorno d’oggi.

In ogni sezione, il visitatore è invitato a chiedersi cosa significhi veramente Troia, rimuovendo la patina delle grandi gesta eroiche, della conquista coloniale da parte dei Greci, della ricchezza favolosa (si veda il mito persistente del tesoro di Schliemann) che abbiamo lasciato vi si depositasse sopra lentamente, anno dopo anno, racconto dopo racconto.

Il Mito di Troia

L’ingresso alla prima parte della mostra dedicata al mito di Troia in antico ©T. van der Zon

Oltre il mito: un conflitto armato

Questa è una mostra che non fa sconti a nessuno: non agli eroi di Omero, non a chi ha cercato le tracce archeologiche dell’antica Troia, e nemmeno a chi si avvicina oggi al suo mito. A tutti è richiesto uno sforzo perché si guardi a Troia al di là del mito e per quello che rappresenta in realtà: un conflitto armato.

Un cartello all’ingresso del percorso espositivo avverte sin da subito che la mostra parlerà di guerra, e dunque di violenza. A ribadire il concetto, le parole “discordia – guerra – caduta” (in inglese e greco antico) che pendono a lettere cubitali dal soffitto lungo tutta la prima parte dell’esposizione.

Le curatrici Alexandra Villing, Vicky Donnellan e Lesley Fitton riescono così a comunicare efficacemente il loro punto di vista: non ci restituiscono l’eroismo patinato e glorioso di tanti racconti (antichi e moderni), ma scavano negli orrori dei conflitti armati.

Al di là della riflessione se il racconto della guerra di Troia si riferisca a una realtà storica oggettiva, è indubbiamente reale il modo in cui le parole di ‘Omero’ riflettono ciò che significa essere in guerra.

‘face pots’ da Hisserlink (Troia)

Esempi di ‘face pots’ da Hisserlink (Troia), c. 2250-1750 a.C. Staatliche Museen zu Berlin, Museum für Vor- und Frühgeschichte © T. van der Zon

In guerra tutti perdono qualcosa

Moltiplicate nei quasi trecento oggetti della mostra, le parole del cantore dell’ira di Achille, interpretate dalle curatrici del British Museum, pongono per la prima volta in secondo piano l’eroismo del mito per concentrarsi invece sulle debolezze dei protagonisti e le conseguenze tragiche della guerra sulle loro vite.

Non basta vincere per uscire vincenti da un conflitto, anzi. Tutti perdono qualcosa. Così, le voci degli eroi omerici vittoriosi si mescolano a quelle dei soldati troiani sconfitti, della famiglia reale di Troia (falcidiata dalla guerra), delle donne (tutte), dei bambini (compresi i figli degli eroi greci che hanno combattuto a Troia).

Filippo Albacini, Achille ferito

Filippo Albacini, Achille ferito. Marmo, 1825. The Devonshire Collections, Chatsworth

Fragilità di Achille

Non è forse un caso che l’eroe per eccellenza, Achille, sia rappresentato attraverso tre opere chiave che invece di metterne in mostra l’eroismo e la prodezza militare ne sottolineano la fragilità e la sconfitta.

La mostra si apre infatti con un quadro del 1962 di Cy Twombly, The Vengeance of Achilles (L’ira di Achille), in cui dell’eroe omerico non rimane nulla al di là di un’esplosione di rosso, simbolo del crescendo diagrammatico della sua rabbia, del suo isolamento e della sua solitudine. Accanto, i resti dell’accampamento greco (opera di Anthony Caro) e null’altro. Nessuna presenza umana.

Segue, nella sezione successiva, una serie di rappresentazioni vascolari in cui Achille combatte e vince, certo, ma mai di una vittoria piena. Fu forse una vittoria l’uccisione dell’Amazzone Pentesilea, di cui Achille si innamora nel momento stesso in cui la sta trafiggendo con la spada? “Gli occhi tuoi pagheran, s’in vita resti, di quel sangue ogni stilla un mar di pianto”, farà eco a questa scena Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata.

In tutta la prima parte dell’esposizione, l’attenzione e lo sguardo del visitatore sono sapientemente indirizzati, piuttosto che verso le scene di battaglia, verso il grande ritratto in marmo di Achille morente realizzato a metà Ottocento dallo scultore Filippo Albacini. L’eroe, sconfitto dalla freccia di Paride, è accasciato a terra e volge lo sguardo verso l’alto, dove incontra la struttura di legno che riproduce in mostra il cavallo di Troia. La vittoria finale di cui Achille ha il merito, ma da cui è escluso.

Piangere gli affetti più cari

E Achille torna, ancora, verso la conclusione della mostra, in un bel quadretto di Heinrich Füssli (1770) in cui l’artista coglie il lato più crudele delle guerre (la separazione dagli affetti) ma anche il lato umano dei soldati che, come Achille con Patroclo, spesso si trovano a dover piangere un commilitone morto.

Significativamente, le curatrici affidano la spiegazione della brutalità di queste morti, e l’impatto che hanno su chi sopravvive, alla voce di un veterano di guerra britannico, che aggiunge una riflessione ulteriore all’immagine ‘eroica’ delle guerre e al significato che può avere il modo in cui le rappresentiamo (un pdf con la trascrizione dell’audio è disponibile nel sito web nell’ottima sezione Access – Accessibilità).

Al soldato moderno non è concesso piangere o mostrare emozioni, non come all’Achille di Füssli o all’Ettore che saluta Andromaca e Astianatte nell’opera di Angelica Kaufmann del 1768: una restrizione che ha spesso effetti devastanti sulla stabilità emotiva e psicologica dei veterani.

Heinrich Füssli, Lamento di Achille

Heinrich Füssli, Lamento di Achille per la morte di Patroclo. Acquerello. 1770.

Gli orrori delle guerre

Eroi imperfetti. Soldati sconfitti dalle guerre che combattono. Ma, non va dimenticato, anche uomini crudeli. La mostra invita in più punti a riflettere sugli orrori della guerra, e in particolarità sulla responsabilità di chi le combatte.

Mostra, tra gli altri, il sacrificio di Polissena; le immagini che anticipano lo stupro di Cassandra (ovvero il momento in cui Aiace la trascina fuori dal tempio di Atena in cui si era rifugiata); o quelle dei giovani prigionieri Troiani sgozzati da Achille come offerta funebre a Patroclo. Nessun eroe si salva (e forse eroe non è la parola giusta, a questo punto): sono tutti colpevoli.

I nostoi, i viaggi di ritorno a casa, non sono allora che espiazioni delle nefandezze della guerra. In fondo è lo stesso Omero a dircelo nel terzo libro dell’Odissea: “Zeus planned a bitter journey home for us, since some of us had neither sense nor morals” (così come illustrato in mostra nella nuova traduzione di Emily Wilson).

Odisseo, allora, non è solo l’eroe che resiste al canto delle Sirene e salva i compagni dal ciclope Polifemo, così come è spesso celebrato. È anche il regista dietro la violenza della caduta di Troia, e allora come tale lo si può far scendere dal piedistallo e dipingere come una macchietta che corre dietro alle sottane di Circe (come nel bel vaso burlesco a figure nere dell’Ashmolean Museum).

Odisseo e Circe, Elena

Skyphos a figure nere con Odisseo e Circe, 425-375 a.C. The Ashmolean Museum, Oxford. / Edward Burne-Jones, Le lacrime di Elena. Acquerello. 1882-98. The British Museum.

Donne in guerra

Arriviamo così, infine, a un altro nodo focale della mostra: le protagoniste femminili del mito di Troia. Volendo trovare un difetto a questa mostra, altrimenti davvero eccellente, è forse quello di aver tenuto le donne un po’ in disparte nel percorso iniziale, per poi sviluppare una riflessione sul loro ruolo, veramente interessante e approfondita, solo sul finale (nella sezione Women of the Trojan War, Le donne della guerra di Troia).

La riflessione parte con un piccolo ‘inganno’: mentre all’inizio della mostra le donne appaiono quasi unicamente in scene di violenza (a esclusione, forse, ma non del tutto, di Penelope), nella sezione a loro dedicata ne viene mostrata solo la bellezza.

Nei quadri dei Preraffaeliti, Elena e Cassandra appaiono bellissime, ben vestite, con lunghi capelli al vento. Ma l’inganno è proprio qui: spesso di queste donne vediamo solo la bellezza e non ci chiediamo, come non se lo chiedevano gli eroi omerici, cosa provassero davvero, cosa potesse significare per loro la guerra.

Siamo sicuri che Elena fosse felice di essere una pedina alla mercé del desiderio degli uomini? O ce la dobbiamo forse immaginare, come Edward Burne-Jones, mentre si dispera davanti alle rovine di Troia, o ancora come nella splendida fotografia di Eleanor Antin (l’immagine di copertina), mentre aspetta il giudizio di Paride, seduta in disparte e tutt’altro che entusiasta all’idea che il suo destino sia deciso dagli altri?

Voce alle donne

Tra i tanti meriti, la mostra del British Museum ha certamente quello di aver provato a ridare una voce alle donne: non solo a quelle del mito ma anche a quelle che ancora oggi vivono situazioni simili di marginalizzazione, violenza e migrazione come conseguenza di conflitti armati (si veda lo splendido progetto Queens of Syria, per esempio, pur con le polemiche avanzate dalle sue creatrici contro il British Museum).

E forse non è un caso che il bel libro di Pat Barker, Il silenzio delle ragazze (un racconto sulla guerra di Troia dal punto di vista di Briseide, la nobile diventata schiava di Achille) sia l’unico a essere già esaurito nell’altrimenti fornitissimo bookshop della mostra.

 

Troy – myth and reality
The British Museum, Londra
fino all’8 marzo 2020
biglietto (adulti) £20.00, prenotazione obbligatoria
info e biglietti: https://www.britishmuseum.org/exhibitions/troy-myth-and-reality

Autore

  • Aurora Raimondi Cominesi

    Laureata in Archeologia e Storia dell’Arte Romana all’Università di Pisa, ha inseguito la passione per l’antico, le lingue e i musei in giro per il mondo, lavorando al J. Paul Getty Museum di Los Angeles e ottenendo un dottorato alla Radboud Universiteit di Nimega nei Paesi Bassi. Conquistata dai mulini a vento, attualmente lavora come curatrice a progetto per il Museo Nazionale delle Antichità (Rijksmuseum van Oudheden) a Leida, nei Paesi Bassi. Online, la trovate sulla pagina Facebook di #svegliamuseo per parlare di musei e social media.

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