Perché lo storytelling serve ai musei?
Perché a noi esseri umani interessano non già le cose ma anzitutto le persone: toccare con mano il passato non significa per noi solo toccare una pietra o un oggetto, ma immaginare chi ha posato quella pietra e plasmato quell’oggetto. Vorremmo addirittura dialogare con i nostri antenati proprio come facciamo con i contemporanei. In fondo è quel che cerchiamo sempre: interazione, comunicazione, dialogo. E solo attraverso le storie riusciamo a confrontarci faccia a faccia con chi ci ha preceduto: un confronto sicuramente virtuale e immaginario, ma non per questo meno reale nelle nostre menti.
Lo storytelling è in verità l’arte di parlare dell’uomo all’uomo, di creare contatti umani altrimenti impossibili. E così facendo stimola in tutti fantasia, curiosità per l’altro, spinta ad agire. Perché ogni dialogo abbatte le barriere culturali, e produce simpatia e amicizia anche dove prima c’era diffidenza: “dialogare” con gli antichi ce li fa sentire un po’ nostri amici.
Ma non è tutto: ogni confronto aiuta a porsi domande inedite e scoprire qualcosa di nuovo su noi stessi, oltre che sugli altri: comporta sempre una maggiore consapevolezza anche di sé.
La narrazione, in tutte le sue forme, è lo strumento privilegiato per appassionare i moderni al passato e far sì che, attraverso il passato, conoscano meglio anche il presente.
Ecco perché lo storytelling e non altro: sa coinvolgere i visitatori, li fa sentire protagonisti, fa capire loro che il passato li riguarda, che è parte integrante delle loro stesse vite. È il cuore della comunicazione museale e va cavalcato in tutto: nel raccontare i singoli oggetti presenti nel museo, per ricostruire in modo vivo e palpabile il mondo a cui appartenevano e che hanno perduto, ma anche e soprattutto nel delineare il percorso di visita. Chi entra in un museo deve sentirsi così immerso e protagonista di una grande storia, da procedere col fiato sospeso sala dopo sala, con la voglia di cogliere tutto fino all’ultimo per vedere come va a finire.
Quale storytelling per i musei?
Giorni fa a Ravello Lab – incontro annuale per immaginare le strategie future nel campo dei beni culturali – ho raccontato una mia storia per far capire come si dovrebbe trasformare la narrazione nei musei. Ho cominciato la mia carriera giornalistica collaborando con le pagine culturali dei giornali, perché quello era il mio mondo. Poi un giorno, una ventina d’anni fa, sono stata contattata dalla Cronaca di Repubblica ed ero felicissima: potevo finalmente scrivere non solo per i pochi lettori delle pagine culturali, ma per tutti. Potevo raccontare le mie storie a tutti. Non è stata impresa facile: ho dovuto abbandonare il mio consueto modo di scrivere per abbracciare una forma il più possibile semplice, chiara, sintetica. Ma soprattutto dovevo convincere il capo della Cronaca a rubare spazio al delitto di Cogne, o di Garlasco, o al mostro di Firenze o a Meredith Kercher per affidarlo alle mie notizie di archeologia. E nonostante la sua sincera volontà di pubblicare le mie notizie, i delitti o le alluvioni o le frane erano per lui sempre più importanti. Ho dovuto affilare la mie armi e inventarmi di tutto, ma veramente di tutto, per imporre le mie notizie e “battere” Cogne o Garlasco. Era guerra, guerra aperta e dovevo costruirmi una strategia. E anche quando riuscivo a conquistare lo spazio, dovevo poi conquistare il lettore con un attacco che colpisse il suo immaginario e lo spingesse a leggermi, e poi ancora con un racconto – uno storytelling si direbbe oggi – così coinvolgente, conseguente, concatenato da far sì che non abbandonasse la lettura alle prime righe ma mi seguisse incuriosito fino alla fine.
Ecco, i racconti nei musei d’oggi sono per buona parte paragonabili al mio stile “colto” da supplemento culturale. Da “riserva indiana”. Sebbene in circostanze diverse da quelle della stampa periodica di una ventina d’anni fa, devono cambiare così come ho cambiato io, per parlare a tutti. Devono inventarsi le storie più incredibili per intercettare la gente per strada, nei parchi, nel web, ovunque. E all’interno del museo devono costruire le storie più fantastiche, quelle che sanno stimolare il passaparola, che fanno dire a tutti: quello è un must! Ci devi andare! Oramai nel nostro mondo si va nei luoghi della cultura per vivere un’esperienza così come si va al parco a tema, o a una cena particolare, o a lanciarsi col paracadute. Come convincere tutti a preferire il museo al bungee jumping? Un nuovo storytelling non è l’unico strumento ma è l’essenza del cambiamento. No storytelling, no party!
Perché museo 4.0
Si parla di industria 4.0, si parla di quarta rivoluzione industriale che sarebbe già in atto. Perché non si dovrebbe parlare anche di museo che verrà? L’industria 4.0 sarà un’industria totalmente automatizzata e interconnessa, dove la tecnologia digitale ci consentirà di vivere e lavorare in forme finora inedite: big data e open data ci consentiranno di gestire le informazioni come mai prima, gli analytics ci faranno indagare pieghe del mondo sconosciute, l’interazione uomo-macchina assumerà forme inedite, e con stampanti 3D e robot passeremo senza traumi dal digitale al “reale”.
Tutto questo si comincia a fare anche nel mondo dei musei: sempre meno addetti ai lavori sono ancora colti dall’abbaglio delle “nuove” tecnologie, mentre sempre più cominciano a utilizzarle come appendici naturali di sé e del museo stesso. Insomma, si sta finalmente cominciando a fare un utilizzo museale maturo della tecnologia in pieno spirito 4.0. Ma a cosa serve, principalmente, la tecnologia negli allestimenti museali? A raccontare le storie come la sola parola non sarebbe mai capace. Le ricostruzioni virtuali ci offrono l’ambientazione per storie che dobbiamo pur sempre raccontare noi, anche se in forme diverse dall’abituale e che forse al momento riusciamo vagamente a immaginare. Insomma sempre lì si cade: se rivoluzione dei musei sarà, se nascerà il museo 4.0, sarà solo e unicamente grazie alle nostre nuove storie.
0 commenti
Trackback/Pingback