Si dice che serva tutta una vita per diventare bravi in qualcosa, e che misurare la propria perizia nel mestiere che si svolge non sia mai semplice. I vasai greci, però, erano facilitati: sapevano di aver raggiunto competenze manuali di buon livello, quando erano in grado di realizzare al tornio una kylix.
Cos’è la kylix
Il nome kylix veniva già utilizzato nell’antichità, e si riferiva a un tipo particolare di vaso greco, a figure nere o a figure rosse, utilizzato nei banchetti: una coppa da vino in ceramica, diffusa soprattutto tra il VI e il IV secolo a.C.
La sua forma è davvero caratteristica: ha infatti una vasca larga e bassa, che poggia su un piede piuttosto sottile, ed è dotata di due manici. Ricorda vagamente una grossa coppa da Champagne.
Ma perché solo gli artigiani davvero bravi erano in grado di realizzare le kylikes (questo il nome al plurale)? Cosa è importante ricordare di questi oggetti che erano deposti nelle tombe insieme ad altri vasi e tazze che richiamavano il contesto del banchetto?
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Un altro aspetto che sarebbe interessante far emergere -ma capisco maledettamente difficile da comunicare a parole senza sbrodolarsi noiosamente- è la sensazione materica che questi oggetti trasmettono nel prenderli in mano, a cominciare dal punto di vista proprio del peso intendo dire.
E questo magari per rimarcare anche metodologicamente il concetto che per parlare di Archeologia è doveroso stare attaccati alla materialità dei casi concreti.
Rimane a tale proposito che l’assunto che iI vasai greci sapessero “di aver raggiunto competenze manuali di buon livello, quando erano in grado di realizzare al tornio una kylix” ha bisogno della esplicitazione di una prova che dimostri non trattarsi di una illazione ma di una informazione saldamente ancorata alla materialità dei reperti. Altrimenti rischia di diventare un pessimo insegnamento l’abituare a credere sulla nostra parola di Archeologi senza la prima e più importante “prova del nove” dell’informazione archeologica: il riscontro concreto.