Archeologi e pandemia: come si è misurato con l’emergenza chi per mestiere viaggia in ogni dove e lavora a stretto contatto con la gente? Ha trovato soluzioni alternative? Quali? Ha sperimentato, come altre professioni, metodi di lavoro che gli serviranno nel futuro? Ha avuto modo di cogliere, dai cambiamenti sociali in atto, principi e pratiche utili? Di questo si è discusso lunedì 15 marzo al convegno Connective (T)issue. Un convegno sicuramente molto animato.
L’abbiamo voluto noi di Archeostorie, in particolare la redazione del nostro Archeostorie Journal of Public Archaeology che dirigo assieme a Luca Peyronel, e l’abbiamo organizzato in collaborazione con l’Università di Milano. Abbiamo voluto offrire un’occasione di dibattito sul Topic of the Year del prossimo numero del nostro Journal (a proposito: la Call for Papers è ancora aperta!). Un momento di riflessione collettiva e confronto prima della pubblicazione, contando che sia di stimolo e arricchimento per tutti in vista della presentazione dei paper.
Dall’entusiasmo con cui tutti i partecipanti hanno aderito e contribuito, crediamo di aver colto nel segno. Ma si giudicherà poi. Nel frattempo, però, possiamo fare un primo bilancio delle molte questioni sollevate proprio sul tema delle connessioni, che è il nostro focus principale. Connessioni tra ricercatori, tra istituzioni culturali, tra istituzioni e cittadini. Quali legami sono stati ostacolati dalla pandemia e quali invece favoriti, anche grazie al più diffuso utilizzo del digitale?
Progetti mutati
Jaime Almansa-Sànchez dell’Istituto nazionale spagnolo per la ricerca (CSIC) è stato chiaro: il digitale non è la soluzione. Può aiutare, ma non può sostituire il lavoro sul campo. E non favorisce la creazione di nuovi contatti. Ha buone ragioni per dirlo: la pandemia ha in pratica interrotto il suo progetto #pubarchMED che mirava a sviluppare, nei paesi del Mediterraneo, un metodo per valutare l’impatto delle aree archeologiche sulla società e le economie locali. Un anno fa aveva in tasca biglietti aerei per ogni dove. E a distanza, specie con paesi dove anche solo la lingua e la semplice connessione sono un problema, gli è stato praticamente impossibile dare avvio ai lavori previsti.
Gli ha fatto quasi eco Marta Lorenzon dell’Università di Helsinki, presentando esempi di progetti di citizen science che sono stati necessariamente ripensati e adattati alle nuove interazioni ‘a distanza’. Ha parlato anche di un progetto a Tell Timai nel delta del Nilo sulle architetture di terra: è stato portato avanti ‘a distanza’ responsabilizzando maggiormente persone sul posto, ma in quel caso i contatti erano già consolidati e la comunità già coesa e sensibilizzata al valore del progetto.
Bella anche l’idea di Valeria Volpe e Roberto Goffredo (Università di Foggia) che, nell’impossibilità di riprendere l’annuale campagna di scavo a Salapia, in Puglia, e le molte iniziative correlate di archeologia pubblica, hanno pensato di mantenere vivo il rapporto con i cittadini della vicina Trinitapoli coinvolgendoli nella costruzione di una mappa di comunità. Hanno usato la già esistente pagina facebook del progetto per stimolare tutti a partecipare con storie, ricordi, informazioni, video, immagini. E hanno potuto così valutare la diversa partecipazione dei cittadini – in termini di età, sesso, interesse, coinvolgimento etc. – tra le attività in presenza e quelle online. Good job!
Decolonizzare la ricerca
Chi ci ha aperto veramente gli occhi, però, è stato Andrea Zerboni, geoarcheologo dell’Università di Milano che passa la vita a viaggiare tra i cinque continenti. Noi di Archeostorie l’avevamo già intervistato a giugno quando, con un gruppo di colleghi, ha pubblicato un articolo in cui si rivolgevano alla comunità scientifica dicendo che bisogna cambiare passo. Che la pandemia ha reso evidenti problemi già esistenti ai quali ora dobbiamo necessariamente trovare risposta. E oggi le sue convinzioni sono ancor più forti di prima.
Bisogna decolonizzare la ricerca scientifica, affermano con forza Andrea e colleghi. Bisogna innanzitutto formare ricercatori sul posto affinché portino avanti la ricerca e condividano poi i risultati con tutti i partecipanti ovunque nel mondo. I cosiddetti ‘paesi in via di sviluppo’ devono poter avere le stesse opportunità di tutti. In secondo luogo, la condivisione dei dati non è possibile se non si lavora tutti in un’ottica di open access, e utilizzando software open source. E se non si mira a sviluppare strumenti di lavoro poco costosi e perciò alla portata di tutti. Tutto questo porta necessariamente al terzo punto, la riduzione del numero di viaggi dei ricercatori, che ridurranno di conseguenza la loro carbon footprint.
In controcanto, Chiara Zuanni dell’Università di Graz ha presentato i primi risultati della sua analisi della comunicazione online dei musei in quest’anno di pandemia. Ci ha letteralmente aperto gli occhi mostrando, dati alla mano, come i principali progetti di partecipazione popolare, come per esempio Getty Challenge, abbiano riguardato solo certe persone e si siano focalizzati su pochi musei e sulle loro opere iconiche. E come tutte le buone pratiche che anche noi di Archeostorie abbiamo in parte evidenziato, siano prerogativa dei grandi musei mentre i piccoli sono rimasti ai margini o del tutto esclusi.
L’avevamo capito anche noi quando, nel raccontare il progetto Piccoli musei narranti, avevamo evidenziato una realtà di quasi totale assenza di strumenti e conoscenze. Ce l’ha detto ieri persino Marcello Barbanera, presidente dei musei dell’Università Sapienza di Roma, tutti pressoché assenti online. Però i numeri presentati da Zuanni parlano, come sempre, ancora più chiaro. Specie quando rivelano che solo il 5% dei musei dei ‘paesi in via di sviluppo’ può vantare una presenza significativa online.
Le molte domande di Connective (T)issue
Che fare dunque? Le riflessioni si sono orientate su più orizzonti, grazie alle acute e puntuali provocazioni della moderatrice della giornata, Chiara Bonacchi dell’Università di Stirling. In che modo il Covid sta modificando le forme di collaborazione? In che modo il diverso rapporto con i cittadini sta cambiando il modo stesso di produrre di conoscenza, il ‘sapere’ degli archeologi? E questo diverso ‘sapere’ degli archeologi, che impatto ha sulla società?
Quanto poi all’uso del digitale nei progetti di archeologia pubblica, quali problemi etici ci dovremmo porre? Dopotutto, si incoraggiano i cittadini a utilizzare piattaforme di proprietà di grandi compagnie. E che fare quando la nostra comunità virtuale si assottiglia sempre più, com’è fisiologico? E ancora, come risolvere il problema della partecipazione di generazioni diverse, a seconda che i progetti siano in presenza oppure online? Infine la domanda principale: tutte queste iniziative digitali, saranno mai economicamente sostenibili?
Al termine della giornata, le domande erano assai più numerose delle risposte. Molte più di quelle iniziali. La ricerca va avanti proprio così, ponendosi sempre domande nuove. E proprio per questo – ci siamo detti con Luca Peyronel – è giusto ragionare assieme sui temi prima di realizzare un numero di una rivista, e non dopo. Perché tutti gli autori dei paper possano ricevere spunti e cogliere nuove domande a cui cercare risposte. Per diventare sempre più una comunità coesa che costruisce sapere assieme, anziché celebrarsi a cose fatte. Insomma a nostro avviso funziona.
Archeologia come servizio
E proprio in questo spirito Luca Peyronel, in conclusione di Connective (T)issue, ragionava sul modo di lavorare degli archeologi che dovrebbe diventare più collaborativo, più aperto non solo alla condivisione dei dati ma anche di metodi e finalità. “Dobbiamo cambiare prospettiva. Concentrarci non solo sui nostri obiettivi ma su ciò che è utile per tutti. Trovare, se possibile, risposte comuni agli interrogativi sui rapporti tra passato e presente”. In una parola, essere più interconnessi con tutti.
Dopotutto, ogni attività umana ha senso solo se intesa in termini di servizio: noi tutti siamo apprezzati dagli altri se sappiamo offrire loro un servizio. Avevo già parlato in questi termini dei musei, tempo fa. Ora si ama dire che il museo ‘cura’, che dev’essere ‘casa’ di tutti dove ciascuno può trovare ciò di cui ha bisogno. Pare tanto una moda ma è una grande verità che con la pandemia abbiamo colto con chiarezza. E anche chi fa ricerca deve chiedersi come può essere utile agli altri, ancor prima di coinvolgere gli altri nei progetti propri. Ovviamente questo non significa che dovrà abbandonare le proprie ricerche e i propri sogni. Solo metterli assieme a quelli di tutti.
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