Maria Grazia Ciani non è una viaggiatrice. Ha vagato molto, con la mente, nelle letterature di tutto il mondo. Ha vagato tra i miti antichi, traducendo l’Iliade e l’Odissea, Apollodoro e i grandi tragici. Mentre è raro coglierla con la valigia in mano. Forse perché ha fatto in gioventù un viaggio per lei troppo importante: da Pola dov’è nata, dopo la guerra, è giunta in esilio a Venezia.
Quel viaggio ha segnato tutta la sua vita. Una vita profondamente scossa dalla perdita irrimediabile e definitiva del mondo della sua giovinezza. Delle sue radici. Rimaste nell’ombra, sottaciute per anni, sono riemerse violente e potenti nel 2006 nella sua prima opera narrativa, ora opportunamente ristampata da Marsilio: Storia di Argo (pagine 96, euro 13).
L’esilio metafora della vita
È un’opera di poche pagine, intensissime. Poche parole per elevare l’esilio a metafora della vita stessa, come osserva Claudio Magris nella postfazione. La vita fluisce e non guarda mai indietro. Fabbrica di continuo un passato evanescente, irrecuperabile. E troppo spesso ci sottrae, con forza, da ciò che per noi è più importante, lasciandoci un vuoto tale da rendere vacuo quel che segue. Un’ossessione scolpita nella mente al punto da inibire ogni tentativo di costruzione di un futuro.
Come per Ulisse, anche per Maria Grazia i valori della giovinezza (e della vita) sono impersonati in un cane. Anche lei aveva il suo Argo che si chiamava York. E come Ulisse, anche lei ha dovuto abbandonare York a un destino ignoto, per colpa di una guerra.
Itaca non abita più qui
A Pola, da York, Maria Grazia è tornata solo dopo decenni. Prima le mancava la forza, proprio come a Ulisse. Ma, a differenza di Ulisse, quello di Maria Grazia è stato ritorno di un attimo per poi fuggire di nuovo. Perché non ha ritrovato nulla della ‘sua’ Istria. Non ha ritrovato i sapori e i profumi della sua infanzia. La sua casa è ancora lì ma pregna degli umori di chi l’abita ora, e lei ha persino rinunciato a vederla. Perché lei non ha ritrovato Itaca. La guerra (e la nuova vita dopo la guerra) l’ha cancellata, contaminata, corrotta. Lei non ha ritrovato il suo York.
Noi amiamo discorrere di paesaggio storico, paesaggio che racconta la propria storia, che conserva indelebili le tracce del passato. Dimentichiamo, però, che è privilegio raro. In realtà, poche pietre ancora parlano. Poca terra parla. Dal passato emergono tutt’al più immagini isolate, ancorché colme di senso.
Storia di Argo e di York
Emergono, potenti, Argo e York, cioè i simboli del valore più alto di una vita. Incisi indelebilmente nella pietra, nella terra, nella memoria. È scolpita nelle menti di tutti l’immagine di Ulisse chino su Argo al suo arrivo a Itaca. Allo stesso modo Maria Grazia ha voluto lasciare in Istria un segno della sua vita con York, inciso in un muro che più di altri conservava per lei il senso del tempo passato.
È immagine così pregna da condensare in sé ogni cosa. Quasi vagheggio che, a un certo punto della preparazione del libro, Maria Grazia abbia pensato per un attimo che persino il suo breve scritto fosse inutile, tanto era parlante l’immagine. Uno scritto che è esso stesso essenziale, asciutto al limite del possibile, evocativo come pochi. Uno scritto crudo. Spietato.
Far parlare i silenzi
Magris parla di “poetica del levare, dell’allusione, del sottaciuto”. Dice che Maria Grazia riesce a “far parlare con intensità il silenzio, la pausa, la sottrazione, i vuoti e gli svuotamenti, le perdite della vita”. Dice che la sua “lingua ha una forte capacità di nominare le cose”. Descrive il libretto come “un testo che prende al cuore, facendo sentire tutto ciò che manca”. Solo dopo oltre cinquant’anni, Maria Grazia ha finalmente trovato la forza di narrare, di incidere nella propria mente prima che in quella dei lettori, il dolore incolmabile di una perdita.
Non tralascia però di descrivere, pur nell’universalità del tema, il particolare del mondo che ha perduto. Senza dilungarsi in narrazioni di luoghi, dipinge l’Istria di allora, l’aspra terra slava, con parole profonde, lapidarie.
Cololtri
Chi erano, per noi, gli slavi?
Volti impenetrabili, sguardi fuggenti, abiti dimessi. Una lingua incomprensibile.
Le poche parole penetrate nell’italiano, nel dialetto istriano, nel tedesco parlato dalle classi colte erano usate con significato irridente e spregevole, talvolta osceno.
Chi erano gli slavi?
“Cololtri”, ha detto il poeta. Ma non solo “altri”. Più altri degli altri. Di chiunque altro al mondo. Alieni, su questa terra.
Sono questi i rapporti tra le genti delle due sponde dell’Adriatico. Nel secolo scorso e sempre. L’Adriatico è stato raramente il ‘mare dell’intimità’ di Predrag Matvejevic. Molto più spesso, ha mostrato il suo volto di mare infido, di confine immaginario prima che politico, di cerniera geografica che ha voluto separare, anziché unire, le sue due sponde. Sponde profondamente diverse, “aliene” per tutti sin dagli albori della storia. L’una inizio dell’occidente, l’altra dell’oriente del mondo.
Insieme a noltri
Eppure da sempre, da che mondo è mondo, c’è stata anche intesa tra le genti delle due sponde. Bastava vanificare gli stereotipi, le credenze radicate e le etichette, per guardare in faccia non l’altro, ma semplicemente l’uomo. Bastava e ricordare che “insieme a noltri i navegheva ‘l mar”, che facevano la nostra stessa vita, come ha detto dei cololtri il poeta Biagio Marin.
O bastava vestire i panni semplici e ingenui della bambina Maria Grazia, commossa e riconoscente allo ‘slavo’ che le aveva regalato Argo. Consapevole che era stato proprio uno ‘slavo’ a donarle la felicità.
Secondo Claudio Magris, questi passi del libro più concretamente calati nella realtà istriana sono i meno riusciti perché meno lirici, meno incisivi nel far percepire la profondità del dolore e della perdita. Sicuramente, il loro necessario (seppur minimo) descrittivismo crea una cesura nel fluire allusivo del racconto. Non guasta, però, e non turba perché è particolare ben consapevole della propria universalità. Nello sguardo riconoscente di una bimba c’è tutta la potenza unificante dei rapporti umani veri.
Questo è il testo, leggermente rivisto, di una relazione tenuta il 29 settembre 2010 al convegno Letteratura adriatica. Le donne e la scrittura di viaggio organizzato a Monopoli dal Centro interuniversitario internazionale di studi sul viaggio adriatico (CISVA) e dall’Università del Salento.
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