Quell’11 settembre che ci ha proiettati nel nuovo millennio

9 Settembre 2021
L’11 settembre 2001 in occidente è nata un’era nuova in cui anche la cultura potrebbe guadagnarsi un ruolo tra i motori della storia

Le immagini dell’aereo che si schianta sulla Torre nord del World Trade Center sono comparse d’improvviso su tutti gli schermi. L’intera redazione della Cronaca nazionale di Repubblica è rimasta ammutolita, un silenzio lungo un’eternità. Io ero lì, in redazione, in quel preciso momento dell’11 settembre di 20 anni fa. Ero andata a portare libri da cui scansionare immagini per un mio articolo, previsto in uscita per il giorno dopo. Muta anch’io, impietrita. Forse ci chiedevamo se fosse proprio vero. Non pareva vero. Finché d’improvviso tutti i telefoni hanno preso a squillare in contemporanea: chi era comandato agli esteri, chi all’ufficio centrale, chi a fare interviste. Sono schizzati tutti in un nanosecondo, e io ho ripreso i miei libri e sono uscita. Solo al ritorno a casa ho visto anche il secondo aereo colpire la seconda delle Torri Gemelle, un quarto d’ora dopo la prima. E forse solo allora ho capito che era tutto orribilmente vero.

Un mondo nuovo

Quell’11 settembre è cambiato tutto. Il mondo occidentale ha voltato pagina, definitivamente. Non è stato l’unico grande cambiamento degli ultimi decenni, ma è stato quello che ha chiuso un secolo, anzi un millennio, spalancando le porte a un’era nuova. Ne sono convinta. Basterebbe solo l’immagine di Cinzia in redazione a Repubblica coi libri in mano – perché allora le redazioni si frequentavano – a svelare l’abisso che divide le nostre quotidianità iperinformatizzate e iperconnesse dalle prassi di allora. Erano persino ancora in vita alcuni dimafonisti, a registrare articoli dell’ultimo minuto. Ma ora ci interessa un altro cambiamento: il ruolo della cultura nel mondo, cenerentola diventata d’improvviso protagonista. L’inconfessata verità di tutti i professionisti della cultura.

Ci ho ragionato tempo fa, mentre provavo a tracciare una storia del ruolo della comunicazione nei musei e nelle istituzioni culturali in genere. Quando è stato istituzionalizzato – mi chiedevo – e la comunicazione si è aggiunta a quello che fino ad allora era un tavolo a tre gambe con ricerca, conservazione e gestione? La risposta l’ho trovata nella geopolitica.

Una nuova cultura

Il museo contemporaneo è innanzitutto un’arena di comunicazione. Tutto nel museo – dall’allestimento, ai servizi educativi, alle mostre e le iniziative più varie, ai rapporti con l’esterno – è comunicazione. Perché non è più un luogo separato dalla società, uno ‘scrigno del sapere’ chiuso dentro le proprie mura, in dialogo con un pubblico di addetti ai lavori e amatori. Anche nella percezione pubblica, finalmente oggi il museo ha porte aperte e dialoga con i cittadini, ascolta le loro esigenze, risponde alle loro domande. Finalmente ricerca e conservazione sono finalizzate alla condivisione delle conoscenze.

Il museo d’oggi è inoltre fatto di persone più che di cose: le persone che lo visitano e quelle che si rivelano loro attraverso le cose. Per questo al museo ognuno di noi scopre mondi diversi dal proprio, si confronta con chi è diverso e lontano nel tempo o nello spazio, e attraverso questo confronto dà senso e ricchezza alla propria vita quotidiana. Il museo d’oggi è, o dovrebbe essere, un luogo dove si fa esperienza dell’altro: una palestra di interculturalità e di rispetto per ogni diversità. Ha un ruolo sociale preciso e importantissimo.

Non solo 11 settembre

Nulla di tutto ciò è realmente nuovo: tutto era già stato pensato e sperimentato nel secolo precedente. Si pensi per esempio alla Risoluzione di Santiago del Cile (Unesco e Icom) del 1972 col suo insistere sul ruolo chiave del museo nella società, la sua importanza per l’integrazione sociale e lo sviluppo delle comunità, e sul fatto che la cultura non è elitaria. O si pensi alle esperienze degli ecomusei che da quella dichiarazione hanno preso spunto. Tuttavia, solo col passaggio di secolo quelle idee sono diventate patrimonio comune riconosciuto da tutti. Documenti internazionali come la Dichiarazione universale Unesco sulla diversità culturale (2001), la Convenzione Unesco sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003), la Convenzione Unesco per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (2005) e, per l’Europa, la Convenzione quadro sul valore del patrimonio culturale per la società del Consiglio d’Europa, la cosiddetta ‘Convenzione di Faro’ (2005), hanno dato prova tangibile di come l’attenzione dei professionisti del patrimonio culturale si sia definitivamente spostata dai beni ai cittadini, ponendo quindi l’accento sulla dimensione collettiva e sociale del patrimonio culturale.

Ma nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2021. O avrebbe impiegato molto più tempo a realizzarsi. Quel giorno gli Stati Uniti, e la comunità internazionale tutta, si sono scoperti d’improvviso fragili, attaccabili in ogni tempo e luogo con conseguenze potenzialmente nefaste per il pianeta intero. La loro corazza immaginaria è crollata, e problemi prima sottaciuti sono usciti allo scoperto. Si è individuato un nemico, l’integralismo islamico, ma si è anche capito che il nostro mondo non è l’unico possibile e, seppure in modo molto diverso, siamo integralisti anche noi. E l’integralismo si combatte solo con il dialogo: è un processo lento e complesso, ma il solo possibile per garantire la pace e la sicurezza internazionali.

Diversità culturale e dialogo

Ecco dunque che la comunità internazionale, fino ad allora impermeabile alle istanze del mondo della cultura, ha deciso di ricorrere a politiche culturali per diffondere il dialogo e il rispetto per la diversità culturale. E il mondo della cultura ha saputo reagire prontamente e cogliere le occasioni che le venivano offerte. Ha alzato la testa per provare a inserirsi tra quelli che fino ad allora erano gli unici e inattaccabili ‘motori della storia’: società, politica, economia.

Hanno visto perciò la luce, dall’oggi al domani, la Convenzione e poi la Dichiarazione Unesco sulle diversità culturali. E persino la Convenzione Unesco sul patrimonio immateriale, rimasta al palo da tempo, si è concretizzata all’improvviso per la gioia degli antropologi. Finalmente si era capito quanto fosse importante rimarcare la rilevanza di tutte le identità culturali e del rispetto reciproco. E di spiegare che ogni identità è aperta alle influenze più diverse e in continuo cambiamento, e che nessuno di noi è un monolite isolato e statico.

Se dunque è interessante e positivo che la cultura stia assumendo sempre più rilevanza nel nostro mondo, è sempre bene ricordare che il suo accresciuto ruolo sociale è, sempre e comunque, conseguenza dei più ampi eventi di politica internazionale.

ponte di Mostar

Il nuovo ponte di Mostar – foto Alessandro Giangiulio 2013 via Wikimedia Commons

La Convenzione di Faro

La genesi della Convenzione di Faro è ancor più intrigante. Tempo fa, quando si è cominciato a parlarne in Italia, mi sono chiesta come mai una Convenzione firmata così tanti anni prima, fosse stata ratificata da così pochi stati europei, perlopiù nell’est del continente. La risposta me l’ha data Erminia Sciacchitano, ora funzionaria del Ministero della cultura ma allora ancora in forze a Bruxelles: a suo tempo, la convenzione serviva principalmente a riappacificare gli animi all’indomani delle guerre nella ex-Jugoslavia.

E forse a rimediare – osservo io – a errori palesi dell’Unesco come la decisione unilaterale, calata dall’alto in base a un’idea statica e superata di bene culturale, di ricostruire il ponte di Mostar: avrebbe dovuto favorire la riconciliazione in una città che è invece ancora divisa e ha usato quel ponte come ulteriore motivo di conflitto. L’esempio di Mostar rivela chiaramente che i monumenti di per sé non cambiano le persone, mentre sono le persone ad attribuire ai monumenti un valore che per questo può anche cambiare col tempo, come per l’appunto sostiene la Convenzione.

Solo negli anni successivi la Convenzione di Faro è stata promossa in paesi diversi e il cammino verso la sua ratificazione da parte di tutti è ancora lungo. È comunque favorito dai diversi valori che il ‘mondo (occidentale) nuovo’ sostiene, mentre le incongruenze dell’antico si fanno sempre più palesi. Oggi la parola d’ordine è partecipazione: i cittadini vogliono e devono essere attori e non più solo spettatori in ogni ambito sociale e in particolare nella cultura. Si parla di costruzione collettiva del sapere per favorire il dialogo e la comprensione reciproca tra comunità, classi sociali, generazioni diverse. Per ricostruire le comunità che il ‘mondo antico’ aveva sgretolato. Se il Novecento si era chiuso con il protagonismo dell’individuo singolo, poi col tempo è emersa la necessità di recuperare la perduta coesione sociale. Però, ancora una volta, all’origine di tutto c’è un dirompente evento internazionale. Una guerra che ha rivelato all’Europa, prima che agli Usa, le proprie fragilità.

Comunicazione: una necessità

Quanto al ruolo della comunicazione nelle istituzioni culturali – che a questo punto capiamo essere per loro fondamentale molto più (e per ragioni più pressanti) di quanto lo sia per chiunque oggi – viene riconosciuto ufficialmente nel 2007 nella Definizione di museo di Icom (International Council of Museums). Quella definizione che oggi si vuole cambiare ma senza riuscire a trovare un accordo su come farlo, ha avuto il merito di aver inserito per la prima volta la parola ‘comunicazione’ tra i compiti principali di un museo, assieme ad altre parole chiave del mondo moderno come ‘beni immateriali’, ‘uomo’, ‘ambiente’, ‘diletto’.

Se poi continuiamo a guardare al mondo dall’osservatorio dei pronunciamenti internazionali in ambito culturale, giungiamo alla Raccomandazione Unesco Sulla promozione e protezione dei musei e delle collezioni, la loro diversità e il loro ruolo nella società. Era il 2015 e l’Isis imperversava in Siria e Iraq, e cancellava le testimonianze della storia di città come Palmira o Mosul. La Raccomandazione è il rinnovo di un impegno internazionale di fronte agli attacchi al patrimonio culturale, con un chiarissimo richiamo alla Dichiarazione del 2001 e alla Convenzione del 2005. È anche un modo per ribadire che la protezione e promozione delle diversità culturali, oltre che naturali, è tra le sfide più importanti del nuovo secolo. E che i musei sono il suo strumento primario. Nello stesso anno l’Unesco lancia anche #Unite4Heritage, programma di sensibilizzazione al pluralismo culturale e al valore dei beni culturali tuttora attivo.

Nel frattempo anche altre note criticità del modello novecentesco occidentale avevano ‘rotto gli argini’ trascinando il mondo in una successione di crisi: crisi finanziaria, crisi del debito sovrano europeo e conseguente indebolimento delle democrazie, primavere arabe e crisi demografica. E successivamente Brexit, riscaldamento globale, pandemia (e il 23 e 24 settembre prossimi l’Unesco ha in programma un nuovo Forum per ‘rinverdire’ la Raccomandazione del 2015). Tutte, nel bene e nel male, acceleratrici di cambiamento. Basti pensare a quanto il movimento Black Lives Matter ha contribuito a velocizzare il passo dell’indispensabile processo di decolonizzazione dei nostri musei e delle nostre menti. Un processo lento e faticoso e dall’esito incerto, ma oramai improcrastinabile: come possiamo affermare di rispettare le culture altrui, se il retaggio coloniale è ancora vivo in noi? E quali altri pregiudizi è necessario scardinare perché il rispetto sia vero e sincero?

Cultura tra i motori della storia?

Ora, a vent’anni esatti dall’attentato alle Torri Gemelle, c’è di nuovo l’Afghanistan dei Talebani all’ordine del giorno, e nulla pare cambiato da allora. Il loro inalterato integralismo si specchia sull’inalterata intransigenza dell’occidente. Almeno in Afghanistan, è chiaro che in questi vent’anni non c’è stato alcun dialogo, alcuna azione culturale costruttiva. E ora c’è forte preoccupazione per la sorte – tra l’altro – dell’insegnamento, della ricerca, delle attività culturali, di musei e monumenti. Per ora nessun Buddha di Bamiyan è saltato in aria ma il timore è forte. Il clima attuale è di attesa. Se però qualche aiuto potrà giungere al popolo afgano, non verrà certo da eserciti ma da una società civile che crede nel futuro di tutti nessuno escluso.

Una società civile che dalle nostre parti – contro ogni evidenza, in verità – sta faticosamente imparando il valore di rispetto e dialogo. E sperimenta modi sempre nuovi di contribuire con le attività culturali allo sviluppo economico e sociale delle comunità. Nel 2019 Oecd e Icom hanno redatto il documento Cultura e sviluppo locale: massimizzare l’impatto. Una guida per le amministrazioni locali, le comunità e i musei. Una guida pratica che aiuta a individuare il preciso contributo delle attività culturali allo sviluppo locale, per un futuro più sostenibile. Elenca buone pratiche ma anche indicatori utili a misurare e migliorare l’impatto delle istituzioni culturali.

Una seria progettualità e la misurazione del contributo della cultura alla costruzione del nostro futuro – sia a livello globale che locale – sono passaggi fondamentali e ineludibili. Se oggi la cultura gode di favore e ampi finanziamenti – e se per noi europei i programmi di sostegno alla cultura sono stati da poco rinnovati e con dotazioni economiche persino maggiori di prima – non è garantito che il trend continui. Proprio come si è sviluppato al volgere del secolo, potrebbe anche regredire e relegare di nuovo la cultura a Cenerentola. Si potrà evitare solo dimostrando, numeri alla mano, quanto la cultura sia indispensabile alla vita civile e la sola capace di dar vita a quel che serve davvero oggi: società della conoscenza vivaci e innovative, e soprattutto ‘umane’. La cultura non ha fatto ancora il suo ingresso tra i ‘motori della storia’ e non è ancora davvero al centro delle politiche di sviluppo. Il posto riservato ai tavoli del potere deve essere ancora conquistato.

Autore

  • Cinzia Dal Maso

    ​Tre passioni: il mondo antico, la scrittura, i viaggi. La curiosità e l’attrazione per ciò che è diverso perché lontano nello spazio, nel tempo o nel pensiero. La voglia di condividere con tanti le belle scoperte quotidiane. Condividerle attraverso la scrittura. Un solo mestiere possibile: la giornalista che racconta il passato del mondo. Scrive su temi di archeologia, comunicazione dei beni culturali, uso contemporaneo del passato, turismo culturale per i quotidiani La Repubblica e Il Sole 24 ore, e per diverse riviste italiane e straniere. Dirige il Magazine e il Journal di Archeostorie.

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