Si può votare su facebook fino al 30 settembre, mettendo like sulla foto corrispondente, per attribuire il ‘premio del pubblico’ a uno dei cinque finalisti dell’International Archaeological Discovery Award. Mentre il premio ‘tout court’ viene assegnato dai direttori delle testate di divulgazione archeologica da tutto il mondo -gli stessi che hanno selezionato la rosa dei cinque- coordinati da Andreas Steiner, direttore di Archeo, e da Ugo Picarelli, direttore della Borsa mediterranea del turismo archeologico. La premiazione avverrà il 20 novembre prossimo nell’ambito della Borsa.
Chi sono i cinque finalisti? La città perduta khmer di Mahendraparvata in Cambogia; i dieci rilievi rupestri assiri di Faida, nel Kurdistan iracheno; la ‘metropoli’ neolitica di Motza, in Israele; la Sala della Sfinge nella Domus Aurea a Roma; il leone alato di VI secolo a.C. di Vulci. Sono tutte scoperte importantissime che trovate brevemente descritte nel sito web della Borsa. Siete indecisi su chi votare? Io non ho dubbi, ma vi dirò la mia scelta solo alla fine dell’articolo.
Khaled al-Asaad e il dialogo interculturale
Prima vi racconto che il premio è intitolato a Khaled al-Asaad, l’archeologo che ha perduto la vita perché si è opposto alle distruzioni dello Stato islamico dell’antica città di Palmira, in Siria. Ricordate? Era l’estate del 2015. Asaad è stato arrestato, torturato, decapitato sulla piazza antistante il Museo della città, e il suo corpo esposto al pubblico, appeso a una colonna.
Proprio allora Picarelli e Steiner hanno deciso di istituire il premio e intitolarlo a lui. Un premio che vuole “divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale”.
Asaad ha difeso la ‘sua’ Palmira, la città di cui è stato Direttore degli scavi per 40 anni e che ha sempre amato. Nel difenderla, era certo di fare il suo mestiere e nulla più. In realtà, non ha solo difeso un bene culturale ma soprattutto una preziosa testimonianza di diversità culturale. Quella diversità che lo Stato islamico avrebbe voluto cancellare.
A ragione dunque i due direttori, nel presentare il premio, hanno parlato di scoperte archeologiche come “buona prassi di dialogo interculturale”. L’archeologia ci rivela quanta diversità c’è stata nel nostro passato, e quanto tale diversità sia una ricchezza. Noi non saremmo quel che siamo, senza gli incontri tra culture diverse nel passato, che hanno prodotto idee sempre nuove. L’archeologia ci rivela perché anche noi, oggi, dobbiamo rispettare chiunque è diverso da noi.
L’archeologia, però, ci ha anche raccontato l’origine delle disuguaglianze nella storia, come pure gli abusi di potere, le discriminazioni, le violenze. E spesso è stata al servizio di nazionalismi, colonialismi, razzismi di ogni genere; è stata usata per rafforzare ineguaglianze e ingiustizie, anziché combatterle. Per questo non basta parlare di belle scoperte, dando per scontato che saranno utilizzate a buon fine. Serve un impegno etico più esplicito, oggi più che mai. Oggi che stiamo assistendo, negli Usa, a vicende decisamente meno drammatiche di quelle del Vicino Oriente di allora, ma ugualmente capaci di cambiare le nostre vite.
We can’t breathe
We can’t breathe, gridano oggi le piazze in coro, negli Usa ma non solo. Noi tutti non riusciamo a respirare proprio come George Floyd, ucciso da un poliziotto a Minneapolis perché aveva la pelle nera. Floyd ha aperto gli occhi a tutti noi, ha portato a galla il razzismo che serpeggia ovunque nel mondo, e non solo negli Usa.
A seguito di tali eventi, il 3 giugno l’Archaeological Institute of America ha pubblicato una dichiarazione d’intenti molto chiara e significativa. È un impegno degli archeologi a collaborare con le altre forze sociali per costruire una società più giusta, inclusiva, equa. Un impegno a usare la ricerca archeologica a vantaggio del rispetto per la diversità culturale e contro ogni ingiustizia. E un impegno a rendere conto del proprio operato affinché il cambiamento sia reale e non solo a parole. È un testo duro, implacabile, importante da cui non si torna indietro. Contiamo di vederne presto i frutti.
Impegno etico delle istituzioni culturali
Da sempre i grandi eventi della storia provocano ripercussioni a catena in tutti i settori della vita civile, compreso il settore culturale. Anzi, proprio nei momenti più tragici si capisce che bisogna partire dalla cultura, se si vuole cambiare davvero e aspirare a una società più giusta e in pace.
Sappiamo bene che senza i fatti dell’11 settembre 2001, non sarebbe stata scritta in tutta fretta la Dichiarazione Unesco sulla diversità culturale, seguita poi dalla Convenzione del 2005. Sappiamo quanto la cosiddetta Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa del 2005 sia figlia dei contrasti che dilaniavano (e purtroppo dilaniano ancora) la ex Jugoslavia all’indomani delle guerre. E come anche la Raccomandazione Unesco del 2015 Sulla protezione e promozione dei musei e delle collezioni, la loro diversità e il loro ruolo nella società sia nata nel clima di preoccupazione per l’avanzare dello Stato islamico in Medio Oriente.
Da allora non si fa che parlare dell’irrinunciabile impegno etico da parte delle istituzioni culturali, della necessità che siano parte attiva della società e s’impegnino a costruire un futuro più equo e sostenibile per tutti. Oggi le istituzioni culturali non possono più chiudere gli occhi di fronte ad abusi e ingiustizie. Non possono, per convenienza, nascondersi dietro il paravento (oramai anacronistico) della neutralità della ricerca.
E proprio in questi giorni, mentre gridiamo Black Lives Matter, stiamo facendo un ulteriore passo avanti in questa direzione: si sono espressi gli archeologi ma anche molti direttori di musei, schieratisi con i manifestanti e contro la polizia.
Proprio oggi, dunque, un premio di archeologia intitolato a Khaled al-Asaad, che ha dato la vita per difendere la ricchezza della storia, assume un significato molto particolare. Forse è lecito chiedere agli organizzatori del premio che, in futuro, accolgano con maggior decisione le istanze che vengono dal mondo della cultura e valutino in modo sostanziale l’impegno dei ricercatori per il dialogo tra culture. Anche per onorare al meglio la memoria di Khaled al-Asaad. Perché l’archeologia dimostri il suo volto più vero e più bello: il suo volto umano.
Però intanto votiamo per i candidati d’oggi, per il loro impegno e pe i loro risultati grandissimi. Alcuni forse li conosciamo meglio, come gli amici di Vulci o del Parco archeologico del Colosseo (che comprende anche la Domus Aurea). Altri meno perché più lontani da noi, e qui dovrà essere la curiosità a farci da guida.
Il mio voto
Io, per quel che mi riguarda, ho già votato per una scoperta lontana, nel Kurdistan iracheno, ma anche vicina perché opera di archeologi italiani. Ci sono stata, in Kurdistan, ho visto i rilievi di Faida e vi dico che sono unici. Sono veramente una scoperta epocale. Sapevo cosa avrei visto ma la realtà ha superato ogni mia migliore aspettativa: non credevo ai miei occhi.
Ma non solo: il gruppo che fa capo a Daniele Morandi si è trovato a lavorare in un luogo difficile e in momenti particolarmente difficili. Mosul è a due passi da Faida; lo Stato islamico era a due passi da Faida. Ma da quelle parti l’eredità culturale viene strumentalizzata (o ignorata) in mille modi, anche indipendentemente dagli ‘eccessi’ degli anni recenti. Il compito di Morandi & Co. è stato ed è delicatissimo, eppure hanno fatto di tutto anche per aiutare i profughi che tuttora sono rifugiati nel Kurdistan iracheno.
Che altro dire? Sono di parte, lo ammetto, ma i rilievi di Faida sono per me la scoperta perfetta. Meritano un premio per la loro bellezza, per il loro significato storico, e per quanto significano e potranno significare per noi oggi. Potranno essere usati sia bene che male. Sta a tutti noi sostenere Morandi & Co. nella loro battaglia per far sì che, in una delle terre più contrastate del pianeta, diventino sempre più strumento di dialogo vero.
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