Come si fa a raccontare ai cittadini che chi scava in un cantiere archeologico non intralcia solo il traffico, ma fa un servizio per la comunità? Come si coinvolgono le persone nella scoperta di un’archeologia urbana che non si vede, ma c’è? Si prova con la fotografia, un mezzo bello e immediato. È ciò che fanno Pietro Mecozzi e Ilaria Frontori, archeologi curatori della mostra Milano sepolta. Dieci anni di archeologia urbana a Milano, inaugurata lo scorso 1 marzo al Museo Archeologico cittadino e visitabile fino al prossimo 13 maggio.
Attraverso 20 fotografie scattate dallo stesso Mecozzi e da altri colleghi, la mostra illustra il lavoro degli archeologi nei cantieri che si sono svolti nel capoluogo lombardo dal 2005 al 2015. Le immagini – assolutamente inedite e che è stato possibile mostrare grazie al permesso della Soprintendenza – ritraggono reperti e strutture in fase di scavo. Riescono proprio a far ‘entrare’ le persone in cantiere attraverso le immagini, a far conoscere in tal modo l’attività di scavo preventivo e rendere partecipe la collettività dei rinvenimenti nei siti milanesi scavati in questi anni, da Piazza Sant’Eustorgio a Piazza Santo Stefano, da via Sforza (Policlinico) a via Necchi, da via Calatafimi, a via Gorani, a via Santa Maria alla Porta.
Si possono così osservare gli archeologi al lavoro, mentre scoprono una fornace per la ceramica o mentre riportano alla luce pavimenti e mosaici; si può assistere alla scoperta di una necropoli e rivedere la traccia lasciata da un antico corso d’acqua. E naturalmente, ci si può emozionare di fronte ai tanti materiali rinvenuti, come scarti di lavorazione e recipienti decorati, lucerne, anfore e affreschi, ritratti ancora sporchi di terra, poco dopo essere stati scoperti.
L’esposizione è stata promossa dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la Città Metropolitana di Milano e dal Civico Museo Archeologico di Milano.
Milano sepolta. Il progetto
L’obiettivo finale, almeno nell’intento, è non solo restituire al territorio quello che sul territorio si è trovato (e che solo in alcuni casi sarà prima o poi musealizzato), ma anche creare una sorta di dialogo continuo con la comunità, spesso ignara del proprio patrimonio culturale.
“Nessuno sa quello che avviene all’interno di un cantiere d’emergenza: i cittadini sanno solo che si sta scavando e che si sta in qualche modo creando un disagio per la comunità perché si ferma il traffico e si tolgono parcheggi”, spiega Mecozzi. “In più, tante persone non sanno neppure che ci sono dei resti archeologici a Milano, e rimangono davvero stupite quando glielo racconti. Così mi è venuta questa idea, ormai oltre dieci anni fa”.
“Durante il nostro lavoro, scattiamo tante fotografie per la documentazione: perché dunque non mostrarle, almeno alcune, per far vedere ciò che facciamo e cosa troviamo? Perché non scattare qualche bella immagine sì dei reperti, ma anche nostra, per far vedere come lavoriamo? Grazie a Ilaria sono riuscito a riunire più colleghi, più foto, più scavi, mostrando alle persone quell’archeologia che di solito non si vede mai.”
E continua: “L’archeologia urbana a Milano non ha una sua voce, non è conosciuta, non è raccontata. Abbiamo voluto mostrare cosa facciamo e rivolgerci non solo ai soliti specialisti ma a un pubblico più ampio, cercando di raggiungere anche cittadini e turisti”.
Una mostra che non si esaurisce al museo
Per centrare al meglio il suo scopo, la mostra ‘viaggia’ su due canali, uno reale, e cioè l’allestimento vero e proprio al museo, e uno virtuale, ovvero i social media.
L’allestimento
L’esposizione in realtà tradisce, almeno in parte, l’idea originale dei due curatori e sembra dimenticare il suo obiettivo primario: se inizialmente i protagonisti della mostra dovevano essere gli archeologi al lavoro, di fatto il focus si è spostato prevalentemente sui reperti.
“L’allestimento era stato pensato inizialmente con molte più foto e molto più incentrato sui cantieri, con scene di scavo e contesti, mostrando il contrasto tra i reperti e il cantiere archeologico” spiega Mecozzi. “Per questioni di spazio e di risorse oggettive, abbiamo poi dovuto dimezzare le foto, rendendole più adatte all’ambiente del museo, mostrando così più reperti e togliendo molte delle immagini di cantiere”.
Inoltre le fotografie – che sono bellissime – sono state trattate quasi come opere d’arte scollegate le une dalle altre, come quadri attaccati su una grande parete nera, identificati con didascalie brevi, molto tecniche, che pochissimo raccontano sia dell’attività di scavo, sia degli oggetti rinvenuti. A questa mancanza di narrazione scritta, il museo ha deciso di ovviare con alcune visite guidate per i visitatori del museo. In lavorazione c’è anche un catalogo che dovrebbe comprendere anche le immagini scartate.
Milano sepolta sui social
Diversa è l’attività sui social network, dove i curatori stanno pubblicando quelle immagini che, non in mostra, raccontano più in dettaglio l’attività di scavo o le strutture e i reperti. L’uso dei profili Facebook e Instagram della mostra, oltre che di quelli istituzionali del museo, serve ai due curatori per coinvolgere maggiormente il pubblico e fornire informazioni più approfondite delle didascalie della mostra, attingendo anche dai notiziari di scavo, cioè da quei documenti scientifici che sono normalmente letti solo dagli ‘addetti ai lavori’ e che, nella concezione di Pietro e Ilaria, vanno invece usati anche per condividere informazioni con la cittadinanza.
Milano sepolta, un percorso che inizia
La coppia Frontori-Mecozzi ci tiene a sottolineare che Milano sepolta non è un punto di arrivo ma solo un punto di partenza: il loro obiettivo è ampliare e migliorare il progetto e l’allestimento della mostra per riproporla in futuro, coinvolgendo tanti altri colleghi per riuscire a raccontare in modo efficace l’attività di scavo preventivo ai cittadini.
L’idea dei due, insomma, è meritevole e va nella direzione dell’archeologia pubblica, anche se, di fatto, questo primo esperimento è per ora riuscito solo a metà. Poco importa però, perché i nostri hanno le idee molto chiare e sono tenaci.
E noi contiamo che la loro perseveranza li premierà.
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