Quando le istituzioni universitarie di due paesi come l’Etiopia e l’Italia s’incontrano, discutono e decidono di collaborare su un terreno comune così fertile come l’archeologia, non può che nascere qualcosa di appassionante ed estremamente fruttuoso. La Cooperazione Italiana allo Sviluppo in Etiopia ha lanciato ormai da anni un programma rivolto alla formazione universitaria, che prevede la collaborazione tra alcuni atenei italiani ed etiopici in specifici ambiti della didattica e della ricerca. Alla fine del 2015 l’Università di Napoli L’Orientale, cui è stata affidata dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale la gestione dell’offerta formativa in archeologia, in accordo con l’Università di Addis Abeba, ha bandito alcuni posti per l’insegnamento dell’archeologia del Corno d’Africa. A me è stato assegnato quello relativo all’archeologia preistorica. È così che, dopo tanti anni di ricerca condotta presso diversi atenei italiani e inglesi e dopo due decenni di intenso lavoro sul campo in Egitto e Libia, ha avuto inizio la mia avventura in Africa Orientale, la mia avventura in Etiopia.
Lo scorso aprile ho trascorso le mie prime settimane ad Addis Abeba per l’insegnamento del modulo Quaternary Environments of Ethiopia and the Horn of Africa destinato a studenti di laurea specialistica. Ho avuto l’onore e il piacere di condividere degli intensissimi momenti di crescita e scambio con i colleghi locali e con studenti molto preparati e letteralmente assetati di conoscenza. Si è parlato di archeologia e preistoria dell’Africa Orientale, di evoluzione umana, di paleoclima, di adattamenti all’ambiente, di realizzazione e uso di manufatti in pietra; si è parlato dei nostri antenati, di uomini e donne appartenenti alla nostra specie, e delle loro storie.
Archeologia, un ponte tra Etiopia e Italia
Insegnare archeologia in un’università rappresenta sempre una grande sfida, una responsabilità e un privilegio. E questo è anche più vero quando l’università si trova in Africa, e più specificatamente in un paese chiamato Etiopia. Insegnare in Etiopia è un privilegio, prima di tutto, come accademico italiano. Conosciamo tutti la storia dei rapporti tra i due paesi; l’area adiacente all’edificio storico dell’Università di Addis Abeba, ora sede del rettorato e già palazzo dell’imperatore Hailé Selassié, fu teatro nel febbraio del 1937 di una delle più sanguinose e vergognose pagine di storia dell’occupazione fascista: “Yekatit 12”, meglio conosciuta come “strage di Addis Abeba“, in cui migliaia di civili etiopi furono trucidati in seguito al fallito attentato all’allora viceré d’Etiopia, il generale Rodolfo Graziani. È un onore avere la possibilità di tornare, come ambasciatore di amicizia, tra questi edifici che sono oggi divenuti luoghi di crescita e conoscenza.
Insegnare in Etiopia è poi un grande privilegio come studioso della preistoria africana perché è proprio da queste terre che proviene gran parte dei resti fossili dei primi ominidi ed è sempre lì che la storia di Homo sapiens, la nostra storia, ha avuto inizio circa 200mila anni fa.
Ho deciso di tenere l’ultima lezione del mio corso al Museo Nazionale dove i colleghi mi hanno gentilmente messo a disposizione una collezione di manufatti in pietra da poter mostrare agli studenti. Credo riusciate a immaginare come ci si senta a parlare dei nostri antenati nella terra in cui tutto ha avuto inizio, e avere il privilegio di descrivere come uno strumento veniva scheggiato e usato, a soli pochi metri di distanza dai resti di Lucy, la meravigliosa Australopithecus afarensis, vissuta nella valle dell’Awash, 3.2 milioni di anni fa.
Al termine della mattina, una volta conclusa l’analisi dei nostri strumenti, un gruppo di chiassosissimi bambini di una scuola primaria ha letteralmente invaso le sale del Museo. Ammirare i loro visi attoniti di fronte ai resti dei loro, dei nostri antenati, e le loro piccole mani spalmate sulle vetrine è stata una delle esperienze più toccanti di tutta la mia carriera; la piccola Lucy, i crani dei primi Homo sapiens e i bambini insieme; più di 3 milioni di anni di evoluzione umana di fronte a noi in tutta la loro magnificenza.
Le storie raccontate dall’archeologia africana
Quali storie ci racconta l’archeologia dell’Africa attraverso l’osservazione dei manufatti che analizziamo? Una scheggia, una punta, un raschiatoio, a nulla servirebbero se noi archeologi non riuscissimo a farci rivelare le storie di quelle donne e quegli uomini anonimi che li hanno usati: storie di vita, di amore, di malattie, di scontri, di solidarietà, di morte; storie di scambi, di viaggi e migrazioni. L’archeologia ci racconta le storie di quelle migrazioni che i nostri più antichi antenati intrapresero, a partire da 200mila anni fa, diffondendosi dall’Africa orientale al resto del continente, per poi uscirne attraverso il Sinai e il Mar Rosso, popolando così Asia, Oceania, Europa fino ad attraversare il passaggio della Beringia e metter piede per la prima volta nelle Americhe tra 35mila e 15mila anni fa.
L’archeologia ci racconta le loro storie, ma allo stesso tempo deve anche farsi strumento di connessione tra passato e presente. Sono migliaia gli africani che, ancora una volta, stanno scegliendo la via del mare, del sempre più spesso fatale Mare nostrum, per lasciarsi alle spalle una terra dove non c’è più speranza. L’ennesimo Out of Africa della storia sta avvenendo oggi; centinaia di migliaia di migranti anonimi si dirigono verso l’Europa, fuggendo da zone di guerra e carestia. Di fronte a questi drammi, quali sono le responsabilità delle politiche occidentali? E quali le corresponsabilità di ognuno di noi nel voler mantenere uno stile di vita non più sostenibile e di cui oggi ci viene chiesto il conto? L’archeologia non deve limitarsi a raccontarci le storie dei nostri antenati, ma ha l’obbligo di farsi stimolo per una lettura più corretta di quei fenomeni che avvenivano nel passato e che, ciclicamente, continuano a ripetersi nel presente; l’archeologia ci obbliga a ricercare le cause di ciò che è avvenuto e che spesso tuttora avviene, e non solo a concentrarci sugli effetti visibili di certe cause. Oltre a descrivere loro gli strumenti in pietra realizzati migliaia di anni fa dai nostri antenati, credo che ai miei studenti sia giusto parlare anche di questo.
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