Leonida. Un giorno da eroe

8 Giugno 2020
Termopili, 480 a.C. Leonida e i suoi trecento contro l'intera armata persiana. Eroismo oppure follia?

Le due sentinelle, di guardia sul sentiero montano che aggirava il passo delle Termopili, rimasero sbigottite alla vista di quel che stava accadendo: un uomo, un contadino o forse un pastore, era a poca distanza da loro insieme a soldati persiani; stava indicando loro la strada per accerchiare le truppe greche che da due giorni resistevano all’imponente armata del loro re Serse.

Le sentinelle erano nascoste tra i cespugli, attente a non dare nell’occhio e non emettere rumori che le facessero scoprire. Ma ora dovevano agire. “Presto. Corri a informare Leonida!” disse sconvolto uno dei due, rivolgendosi al compagno.

Il soldato non se lo fece ripetere e, anche se le tenebre rendevano il terreno poco visibile, restando accovacciato e tastando il terreno per non cadere sui massi raggiunse il più velocemente possibile la ‘Porta di Mezzo’: la zona del passo dove era accampato il re spartano con i suoi uomini, insieme al resto del contingente greco.

Leonida era nella sua tenda, assorto in un vortice di pensieri. Un misto di esaltazione e timore percorreva il suo corpo, affaticato dai violenti e continui scontri con l’esercito persiano.

Era fiero dei suoi uomini e degli altri greci che con loro stavano difendendo la Grecia tutta, costringendo la più grande armata mai vista a fermarsi in un luogo angusto tra i monti dell’Ellade. Controllando sulle braccia le ferite subite, si chiedeva quanto ancora avrebbero retto a quel conflitto numericamente impari.

Il secondo giorno era sembrato interminabile, ma per fortuna le perdite erano state davvero esigue: la scelta delle Termopili come campo di battaglia si stava rivelando vincente. Per quanto Serse si impegnasse a scagliare le sue armate migliori, compresi gli Immortali, non era riuscito a farli crollare.

Dei 300 uomini selezionati per accompagnare Leonida, solo una manciata aveva perso la vita. A causa delle Carnee, le loro feste sacre, per le leggi spartane gli era vietato portare un numero maggiore di soldati. Ma gli spartani erano i combattenti migliori di tutta la Grecia. I più coraggiosi.

Coraggio.

Questa era la parola che, con orgoglio e commozione, si ripeteva. Stavano avendo coraggio e sperava che il loro sforzo non sarebbe stato inutile.

Si massaggiava le gambe indolenzite. Aveva dormito giusto alcune ore perché l’eccitazione per gli scontri non gli aveva concesso il meritato riposo, quando sentì trambusto fuori dalla sua tenda.

“Uomini, cosa sta succedendo?” chiese, mentre usciva per rendersi conto di persona della situazione. Vide un uomo in ginocchio con il respiro affannato, i loro sguardi si incrociarono e il terrore che gli lesse negli occhi lo pietrificò.

Leonida, ci hanno traditi! Sono uno dei soldati che hai predisposto a controllo del passo montano. Abbiamo appena visto un uomo, un greco, insieme ad alcuni soldati persiani. Stava mostrando loro la via per raggiungerci. Siamo spacciati. Tra poco ore ci circonderanno”.

Il soldato crollò in un pianto disperato e senza fine. Sul terreno impolverato cadevano ripetutamente le sue lacrime. Quella vista lacerò il cuore di ogni uomo lì presente.

Il re di Sparta non credeva alle proprie orecchie: come poteva qualcuno, un greco per di più, averli traditi? Tutto quello che avevano fatto era stato vanificato.

O forse no.

Stava cedendo a un visibile sconforto, notato anche dai guerrieri intorno a lui, svegliati dalla confusione creata dalla vedetta. Se ne accorse e ripensò alla parola che solo pochi istanti prima si era impressa nella sua testa. Ricordò chi era e cosa rappresentava.

Non avrebbe dato la Grecia in mano a quei barbari: ogni secondo guadagnato poteva essere decisivo per le sorti del suo popolo.

Si ricompose, riacquistò il suo portamento fiero da discendente di Ercole, e si rivolse a Demofilo, generale a capo dei settecento Tespiesi che combattevano con loro: “Raduna immediatamente gli altri generali, dobbiamo predisporre un consiglio di guerra. All’alba i persiani ci attaccheranno: non ci faremo trovare impreparati”.

Pochi ordini, diretti. Nessuno avrebbe osato controbattere. Ora i suoi uomini lo riconoscevano ed erano pronti a qualsiasi cosa per lui, per Sparta e per la Grecia.

Rientrò nella tenda; prese elmo, lancia, spada e scudo e iniziò a lucidarli con attenzione. Dovevano essere splendenti per quell’ultimo scontro. Non avrebbe mai regalato a Serse l’impressione di trovare davanti a sé dei soldati spaventati e disorganizzati. Perché gli Spartani non si sarebbero ritirati, tantomeno arresi.

Ordinò poi a tutti i suoi uomini di compiere la stessa, metodica operazione. Arrivò davanti agli altri generali, pronto per scendere sul campo di battaglia. Le sue intenzioni furono immediatamente chiare.

Lesse il panico sui volti di molti dei presenti, perché l’idea che serpeggiava tra i più era la ritirata rapida. Se lo aspettava e non era sua intenzione sacrificare tutti quegli uomini.

Dichiarò che a difendere il passo, e il ripiegamento degli altri soldati, sarebbero rimasti gli spartani con i loro schiavi iloti e i tebani superstiti, se davvero volevano difendere la reputazione della loro città, accusata di aver spalleggiato l’impero persiano. A quelle dichiarazioni i generali si sentirono sollevati e pronti a partire, sapendo a malincuore che purtroppo non c’era più nulla da fare.

Solo Demofilo prese parola: “Re Leonida, anche in questo momento dimostri tutta la tua risolutezza e la tua saggezza, la stessa che per due lunghi giorni hai messo sul campo di battaglia assieme ai tuoi uomini. Parlo a nome di tutti noi tespiesi, affermando che sarà un onore rimanere e combattere per l’ultima volta al tuo fianco”.

Leonida lo guardò senza emettere suoni: un movimento appena percettibile del suo capo e dei suoi impenetrabili occhi, che fissavano con ammirazione quell’uomo, intrepido anche se non addestrato a combattere come lui, bastò come assenso.

Giunta ormai l’alba, i greci si erano posizionati in modo da controllare entrambi i lati del loro imminente accerchiamento. Il senso di terrore che per un istante aveva bagnato di un freddo sudore la schiena di Leonida, forgiata dalle cicatrici degli scontri di oltre trent’anni, era completamente svanito.

Al suo posto si era fatta strada una profonda consapevolezza: ogni istante guadagnato avrebbe dato qualche speranza in più al suo popolo di non finire nelle mani di un tiranno. La speranza che sua moglie e suo figlio sarebbero rimasti liberi. Che avrebbero potuto ancora passeggiare sorridenti per le strade della loro amata Sparta. Questa era l’unica cosa che importava, per cui valeva la pena morire.

La terra letteralmente tremò all’arrivo dell’esercito persiano, circondando quel nugolo di uomini pronti al sacrificio finale. Leonida riconobbe solo per un attimo, distante dalla zona dello scontro, la figura di Serse pronta a godersi lo spettacolo.

Fu distratto da un ambasciatore persiano che si avvicinò, pronto a rivolgergli la parola. L’uomo era stato annunciato e si era avvicinato con grande teatralità, scortato da guardie imperiali. Ma Leonida non lo aveva neanche notato: i suoi occhi fissavano costantemente l’imperatore persiano.

“Re di Sparta, la resistenza e il valore di tuoi uomini non possono essere ignorati. Arrendetevi ora e le vostre vite saranno risparmiate. – fece una pausa, volutamente prolungata per controllare l’espressione dipinta sul volto dello Spartano – Se non lo farete, tra poco di voi non resterà più nulla, nemmeno il ricordo”.

Leonida respirò profondamente. Non distolse comunque lo sguardo da Serse, ma rispose all’ambasciatore: “Ti sbagli persiano, il ricordo di noi resterà perché la nostra morte sarà più risonante delle vittorie. Ogni greco saprà delle Termopili e del coraggio avuto dagli uomini che vi hanno affrontati, per difendere la Grecia. E per questo, quando vi troverete a fronteggiare il resto del nostro popolo, perderete”.

Non disse altro. Indossò l’elmo che si era levato per parlare all’ambasciatore, e si scagliò contro i suoi nemici. Gli uomini alle sue spalle lo seguirono, fieri del loro re.

Coraggio.

Quella parola parve riecheggiare nel vento che si alzò durante quell’ultimo scontro, ancora oggi ricordato come uno dei più grandi atti di eroismo e lealtà della storia greca.

Autore

  • Francesco Nocito

    Archeologo con la passione per la fotografia e la musica. Attualmente lavora come operatore museale per CoopCulture, e come libero professionista offre consulenza in comunicazione digitale per i beni culturali. Ama leggere e guardare film. Per rilassarsi scrive, oppure s’infila un paio di scarpe da corsa e va avanti fino a quando il fiato regge. Ogni volta che può, mette in una borsa il minimo indispensabile e la macchina fotografica, e parte alla scoperta di luoghi nuovi.

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