S’intitola La cantata della grecità e mantiene le promesse: quello che Moni Ovadia sta portando in scena nei teatri antichi d’Italia – ultimo spettacolo questa sera a Grumento – è un vero canto corale sullo spirito più genuino della grecità, che permea tra loro miti antichi e vita moderna. La voce di Moni Ovadia, cadenzata dalla musica della Grecia odierna, unifica tutto in un abbraccio.
È ciò che si suol chiamare un reading, una lettura di brani, e Moni quasi non usa gestualità. Semplicemente legge. Prima brandi dall’Iliade o da Euripide, con i loro eroi forti animati da passioni violente e brucianti. Poi legge i versi di Jannis Ritsos che rivelano tutta la fragilità degli stessi eroi, i loro dubbi, le debolezze. Rivelano la loro umanità.
I miti ieri e oggi
Nell’intervista che gli avevamo fatto prima della tournée, Ovadia ci aveva parlato di un accostamento per contrasto: Ritsos avrebbe rivelato l’inconsistenza di quel che nel mito viene esaltato. Così è stato. Ma le due versioni sono parse piuttosto facce di una stessa medaglia: si è capito quanto Ritsos abbia saputo restituire vitalità al mito, e trasformarlo in un autentico mito moderno. Fuor di ogni retorica, con la grandezza che deriva dalla modestia di chi ha sofferto. E sa descrivere il dramma nella sua lucida essenzialità.
Agamennone il grande condottiero, colui che tutto può e vuole, che non esita a impadronirsi della schiava di Achille Briseide, giunge in vecchiaia a dire “oggi capisco l’ira di Achille: era stanchezza”. Oreste che nel mito si dichiara schiavo degli dei, poi giunge a chiedersi perché mai altri debbano stabilire la nostra sorte. Anche Elena la bella non è detta responsabile della guerra sanguinaria che è scoppiata, nel mito. Ma sul letto di morte è una vecchia stanca che tutti sopportano a fatica, oberata dal peso dei propri capricci.
Spogliati del mito, verso la verità
E infine giunge lei, Crisotemi, colei che il mito nomina solo di sfuggita per quanto fosse insignificante. Insomma quella che alle feste ‘fa da tappezzeria’. Ritsos le fa un monumento, glorificazione della marginalità. “Era come se vivessi fuori dalla storia. Senza vivere, ho vissuto tante vite, compresa la mia. Chiedo perdono”.
È l’eroicità della quotidianità borghese, quando si spoglia della sua vanità. Fuor di vanità, fuori dalla parte che ognuno di noi si costruisce, fuori dal mito, lì finalmente trovano spazio la semplicità e la verità. Ritsos ha saputo spogliare ognuno di noi del peso del mito, e regalarci la via della nostra verità.
La cantata della grecità in ‘luoghi inerenti’
Si chiude così la Cantata di Ovadia, “parole inerenti in un luogo inerente” come ha detto lui stesso. Fa parte infatti del progetto Teatri antichi nostri contemporanei di Q Academy che ha portato i grandi miti greci e romani nei luoghi che li hanno già ospitati millenni fa. Guardandoli con gli occhi d’oggi per spettatori d’oggi, ma desiderosi di conoscere luoghi e pensieri degli antichi.
A proposito le letture di Ovadia sono state precedute, in ogni teatro antico, da un racconto capace di immergere gli spettatori nello spirito del luogo, curato dal Laboratorio Archeoframe Iulm. E il documentario che sempre Archeoframe realizzerà sul progetto, è destinato a portare luoghi e miti in ogni dove. Dobbiamo vivere l’antico – è il messaggio – non lo dobbiamo scordare pena la perdita di ciò che siamo, ma dobbiamo farlo nostro se vogliamo che sia utile davvero: dobbiamo guardarlo con occhi realmente nuovi.
Piccola nota personale: sovente la bellezza dei teatri antichi è quasi vanificata dalla loro scomodità. Usiamoli, certo, usiamoli sempre più, ma troviamo il modo di infondervi in modo non invasivo un po’ di comodità moderna. La mia schiena – e non solo la mia ne sono certa – ringrazierà.
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