La basilica di Siponto, cattedrale nel deserto

9 Aprile 2016
Un’installazione metallica pesante e suggestiva copre dal mese scorso i resti della basilica paleocristiana di Siponto, in Puglia, e alle espressioni di meraviglia si sono già sovrapposte le polemiche. Si discute su costi e potenzialità di tutela, ma nessuno pare interrogarsi sulle modalità di gestione del luogo. Sarà economicamente e socialmente sostenibile?
​Una struttura in rete metallica di sette tonnellate direttamente innervata sulle strutture archeologiche di una basilica paleocristiana: un’installazione realizzata da un giovane artista, Edoardo Tresoldi, invasiva e allo stesso tempo suggestiva, dalle incerte potenzialità di tutela, collocata in un parco archeologico ai piedi del Gargano, a Siponto, in Puglia. Ce n’è abbastanza per far scoppiare un caso. E infatti così è stato (da ultimo questo articolo su L’Huffington Post) . Ora però che il clamore sembra essersi placato, è il momento adatto per alcune riflessioni.
L’intervento tutto è tranne che minimale, anzi si direbbe decisamente temerario. Si tratta di una ricostruzione evocativa delle forme della primitiva cattedrale del centro daunio, realizzata con una fitta trama di reti metalliche che suggeriscono in modo sfumato le (probabili) forme di quello che a oggi rimane un monumento molto problematico. Perché è stato scavato in gran parte in modo ascientifico nella prima metà del secolo scorso, e ancora oggi è oggetto di studio e ricerca per la difficoltà di lettura delle strutture. È una condizione, quella della scarsa comprensibilità, tutt’altro che rara nei siti archeologici, ed è spesso parte integrante della loro storia: una storia che forse meriterebbe di essere raccontata nella sua complessità e non solo evocata o suggerita.

Basilica di Siponto, un’installazione ‘wireframe’

Lo dico da subito: l’installazione è bellissima. Bisogna vederla, di giorno e di notte, per poterla apprezzare e per vivere un’esperienza emozionale intensa, che pur nella pesantezza fisica allude evidentemente alla leggerezza della virtualità nella sua struttura di maglia metallica. Noi digitali la definiremmo un wireframe, ovvero quella modalità di visualizzazione semplice, appunto “a fil di ferro”, molto utile in fase di produzione, ma normalmente solo propedeutica alle successive fasi di modellazione, finalizzate a elaborare modelli complessi, spesso fortemente fotorealistici. In questo caso un wireframe che si fa reale, quasi un ossimoro che sostituisce la suggestione all’imitazione e si propone come intelligente antitesi al fotorealismo virtuale.

Ma, virtuale o reale che sia, il messaggio veicolato non varia di molto, e gioca ancora una volta con una intensa spettacolarizzazione dell’archeologia, con la sola differenza che se in un modello virtuale ciò avviene attraverso la riproduzione della realtà fisica oggi permessa dal computer, qui invece avviene grazie a delle reti metalliche che ammiccano al digitale e ai suoi metodi.
A rimanere intatto e indiscusso è invece l’intento evocativo, che finisce col relegare in secondo piano la sfida della spiegazione e del racconto (della storia o delle tante storie del monumento e del sito) a favore di una evidente grandeur. Anche nei casi in cui, come in questo, l’aspetto originario del monumento resta ampiamente dibattuto.

In questa vicenda però, il punto di reale interesse è altrove, lontano dalla spettacolarizzazione che svanisce presto, dopo l’emozione di una vista mozzafiato, e spenti i fari dell’illuminazione suggestiva.
Lontano anche da un dibattito sui beni culturali spesso inutilmente esasperato, in cui non sembra possibile intervenire senza scomodare ogni giorno almeno un articolo della Costituzione, e senza invocare crociate in difesa di innovazioni importantissime o di altrettanto importantissime tradizioni.
Il punto non è forse nemmeno nella discussa capacità della struttura di rispondere alle esigenze conservative per cui è stata finanziata, o nei legittimi dubbi sulla possibile durata (è la prima volta che un’opera di questo tipo è destinata a non essere rimossa).

basilica di Siponto

Quale futuro si sarà in grado di immaginare per questo parco archeologico?

Oltre la meraviglia: quale futuro per la basilica di Siponto?

Il punto di interesse reale è quale futuro si sarà in grado di immaginare per questo come per tanti altri parchi archeologici. Al momento, infatti, le possibili forme di gestione sono ancora in corso di definizione, e il parco è tenuto aperto in maniera provvisoria grazie a un accordo temporaneo con l’impresa che ha eseguito i lavori, e grazie al distacco di alcune unità di personale da altri siti.
C’è però da sperare che a un intervento di spettacolarizzazione così innovativo e costoso corrispondano presto altrettanto innovative politiche di gestione e animazione, indispensabili non solo per incrementare i flussi di visitatori nei siti culturali, che almeno in Puglia sono ancora un problema, ma più in generale per dar vita a un’economia sostenibile dei siti archeologici.

Se infatti il clamore è utilissimo perché attira pubblico e crea interesse, tuttavia finita la fase di notorietà di questi giorni, verrà anche per il Parco di Siponto il momento della gestione quotidiana, in cui l’installazione artistica sarà sempre meno un elemento di attrazione e sempre più un fattore di costoUna accurata e innovativa politica di gestione potrà impedire invece che l’interesse suscitato da un’operazione così spettacolare si dissolva nel nulla, senza lasciare alcun vantaggio economico al territorio, quando a guadagnarci non ci saranno nemmeno più i parcheggiatori, che nei giorni di Pasqua hanno fatto tombola.

In altre parole, al di là di questo dilagante interesse per la spettacolarizzazione, sarebbe il caso di iniziare a parlare in una maniera che preferirei definire semplicemente concreta della necessità che gli interventi di valorizzazione siano veri e propri investimenti, cioè – in termini squisitamente economici – azioni tese alla creazione di ricchezza e lavoro, da realizzare in tempi programmati e in forme certe. Molti dicono che il termine italiano valorizzazione non sia traducibile in altre lingue: a volte ho l’impressione che siamo noi Italiani a declinarlo in modo generico e poco lucido.

E da ultimo – mi permetto di ricordarlo – ragionare in termini di gestione è in fin dei conti anche un’operazione di tutela, perché permette lo stanziamento di fondi per la manutenzione, che altro non è se non, appunto, una delle pratiche più sostenibili e più efficaci (e meno diffuse almeno alle nostre latitudini) di tutela. Più sostenibili e più efficaci anche di una copertura, che per quanto migliori la fruizione e arresti temporaneamente il degrado, non sarà mai in grado da sola di impedire la trasformazione di un parco archeologico in una bellissima e astratta cattedrale nel deserto.

Autore

  • Giuliano De Felice

    Archeologo, certo. A essere precisi, ricercatore universitario. Che dopo essersi sentito domandare per la millesima volta “Bello, che cosa hai scoperto oggi?”, inizia a capire alcune cose: per esempio che l’archeologia, quella vera, archeologi a parte, non la conosce nessuno; ma anche che irritarsi non vale, perché quella domanda rivela un vero desiderio di conoscenza. E allora l’archeologia prova a raccontarla: usando parole ma anche immagini, video, suoni e animazioni. Quello che oggi chiamiamo multimediale, ma che in fondo è da sempre semplicemente fantasia.

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