Ecoturismo e archeologia: perché conviene, in 5 punti

15 Giugno 2016
L’ecoturismo non è solo un modo di viaggiare, è anche un modo di pensare, vivere e conoscere l’ambiente e il territorio. Attraverso il principio della sostenibilità, anche i siti archeologici ci guadagnano. Come? Scopriamolo
Si capisce che l’estate è alle porte quando ricominciano le classifiche delle aree più belle, pulite e incontaminate del Paese. L’ultima, in ordine cronologico, è del 10 giugno scorso: Legambiente e il Touring Club hanno lanciato l’edizione del 2016 della Guida Blu, una selezione delle località marittime italiane più belle e più sostenibili, in cui si coniugano valore naturalistico, attenzione alla gestione del territorio, manutenzione delle aree di interesse storico e archeologico e offerta enogastronomica di livello. Una vera guida all’ecoturismo nelle aree costiere.
Ma quando al giorno d’oggi si parla di turismo sostenibile non si possono ignorare le aree archeologiche, che stanno assumendo un ruolo sempre più importante. Noi di Archeostorie abbiamo voluto capire il perché, indagare quale sia il rapporto reale tra archeologia ed ecoturismo, e individuarne i vantaggi. Lo spieghiamo in 5 punti, più uno.

1. Cos’è l’ecoturismo

Il termine ecoturismo, contrazione delle parole ecologia e turismo, è stato coniato per la prima volta alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, grazie all’architetto messicano Hector Ceballos-Lascurain; il suo significato secondo la TIES – The international ecotourism society  è quello di un “turismo responsabile in aree naturali che conserva l’ambiente, sostiene il benessere della popolazione locale, e coinvolge l’interpretazione e l’istruzione”. Gli obiettivi sono la conoscenza del territorio e della sua storia, la condivisione di valori e saperi.

Se volessimo sintetizzare molto, potremmo dire che l’ecoturismo è principalmente un modo “lento” e a basso impatto ambientale di viaggiare nelle aree protette e nei parchi e riguarda tutto quello che essi contengono, dalla natura ai siti di interesse storico e archeologico, alle produzioni tipiche di qualità. Chi viaggia in questo modo viene chiamato ecoturista. Le strutture ricettive attente alla sostenibilità dei servizi o dei prodotti, e le attività attente all’ambiente, fanno parte del circuito ecoturistico.

2. Conoscenza e consapevolezza

Per definire l’atteggiamento dell’ecoturista tipo ci viene in aiuto il decalogo dell’IUCNl’Unione internazionale per la conservazione della natura, pubblicato nel 2011: oltre a dare suggerimenti su come minimizzare il proprio impatto utilizzando mezzi di trasporto poco inquinanti, dormendo in strutture ecocompatibili, consumando cibi biologici, locali e di stagione, consiglia per esempio di visitare siti Patrimonio dell’umanità per il loro alto valore o di studiare la meta che si vuole raggiungere, prima di intraprendere il viaggio, apprezzandone in anticipo la storia e le tradizioni. I principi dell’ecoturismo prevedono conoscenza, rispetto e consapevolezza, sia ambientale che culturale.
Questo, in relazione all’archeologia, significa chiedere al visitatore di cambiare radicalmente il modo di fruire le aree archeologiche dove spesso natura e cultura sono fortemente intrecciate. Non si parla più, dunque, di un turismo “mordi e fuggi”, dove l’obiettivo è “consumare” la gita alle rovine, magari portando via un pezzo di nascosto, come souvenir da tenere in salotto, ma di un turismo consapevole, che chiede al visitatore di fare propria la storia dei luoghi e delle popolazioni che li hanno abitati e li abitano, di conoscere non solo le pietre, ma anche gli uomini che le hanno posate. E’ un atteggiamento totalmente diverso che, oltre ad accrescere il rispetto per i siti archeologici, accresce anche quello per il contesto ambientale in cui sono inseriti. 
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Secondo il Rapporto Univerde 2016, le escursioni in aree archeologiche e borghi storici hanno un’elevata attrattiva. © Fondazione Univerde

3. Ecoturismo e profitto

Tutto questo, oltre a favorire una naturale tutela del paesaggio, produce anche un indotto che arricchisce le comunità locali, non depaupera il territorio e consente di ottenere fondi per migliorare la conservazione delle stesse aree protette e degli elementi che le compongono. Tale beneficio sia per gli enti locali, sia per le imprese private che si impegnano a operare secondo criteri di sostenibilità all’interno del territorio è del resto già previsto nei già menzionati principi TIES. Perciò implementare attività ecocompatibili anche all’interno delle aree archeologiche, e favorire le imprese private che sposano questo modo rispettoso e sano di fare profitto, può essere vantaggioso. Anche perché il giro d’affari è elevatissimo: secondo il XIII rapporto Ecotour turismo natura, presentato nell’aprile scorso, il fatturato del turismo sostenibile nelle aree protette nostrane è stato nel 2015 di oltre 12 miliardi di euro.

Cosa potrebbe voler dire ripensare un’area archeologica in chiave sostenibile? Si possono destinare alcuni spazi inutilizzati ad orti biologici, o proporre iniziative di educazione ambientale all’interno del sito, o dotare gli edifici (come il bookshop o la biglietteria) di pannelli solari o adottare accorgimenti per migliorarne l’efficienza energetica, o promuovere buone pratiche di gestione dei rifiuti, o curare la manutenzione delle aree verdi senza necessariamente utilizzare pesticidi, o favorire nei pressi dell’area attività commerciali poco impattanti, legate all’artigianato locale o alle produzioni tipiche. Gli spunti sono infiniti e i siti archeologici nel nostro Paese sono davvero tanti.

4. L’archeologia piace agli ecoturisti

In Italia, secondo l’Istat, sparsi sul territorio ci sono 240 siti archeologici, molti dei quali inseriti in aree naturali protette o vicini ad esse (pensiamo a Paestum e Velia, o Baia, o Populonia-Baratti, solo per citarne alcuni). Secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Univerde “Italiani, turismo sostenibile e ecoturismo” presentato alla Bit – la Borsa internazionale del turismo di Milano – nel febbraio 2016, questo sarebbe decisamente un bene: la presenza di siti archeologici o borghi nell’area protetta o in prossimità della stessa costituirebbe infatti per i turisti l’elemento di attrazione maggiore, superiore anche all’assaggio di prodotti tipici locali o all’acquisto di prodotti artigianali.
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Santuario històrico del Bosque de Pòmac © www.andina.com

5- L’ecoturismo dà un senso nuovo al patrimonio archeologico

Nel mondo, gli esempi di valorizzazione e recupero attraverso l’ecoturismo di aree di interesse archeologico immerse nella natura, sono molti e collaudati. Un esempio divenutato oramai famoso è quello del Santuario Històrico del Bosque de Pòmac, una delle 74 aree naturali protette dallo Stato del Perù. La foresta è abitata da oltre 4000 anni, l’economia agricola di popolazioni preispaniche come i Muchik e i Sicàn era molto sviluppata ma anche profondamente rispettosa del territorio, e così è stato poi per secoli. Ma negli anni Settanta l’integrità naturale e storico-archeologica della foresta è stata messa a dura prova a causa dei tagliatori illegali di legname, e nei due decenni successivi il conflitto interno allo Stato peruviano ha peggiorato la situazione. Il Santuario è stato istituito nel 2001 al termine degli scontri. I progetti di ripristino ambientale si sono fusi con quelli di recupero dell’”identità Muchik”: nella visione della antica popolazione, l’uomo e la foresta sono in perfetta armonia. Il turismo sostenibile nell’area è oggi la principale fonte di sviluppo per la popolazione ed è basato sulla valorizzazione di attività tradizionali, l’istituzione di percorsi in natura che prevedono osservazione di flora e fauna e visite ai siti archeologici.

In Italia una delle attività più diffuse per dare nuova vita alle aree archeologiche degradate è l’agricoltura biologica. Com’è accaduto, per esempio, al parco di Pontecagnano (sito di cui ci siamo occupati di recente) dove sono stati organizzati orti urbani in cui i soci del circolo di Legambiente Occhi Verdi, che ha in gestione l’area, coltivano ortaggi e varietà antiche. Questo ha permesso un riavvicinamento della popolazione locale al sito (che negli anni Ottanta era una discarica) e nuove opportunità economiche. Tra i tanti altri esempi, si può citare anche Hortus Urbis, un progetto di riqualifica nel parco dell’Appia Antica attraverso la creazione di piccoli orti, o il progetto Sterpaia nei Parchi della Val di Cornia, che prevede la coltivazione di grani antichi le cui farine sono vendute al museo archeologico di Piombino.

Dove trovare informazioni

Poiché si tratta di un settore “a metà strada” tra la valorizzazione culturale e quella ambientale, le informazioni sono di varia natura e sparse: non esiste, insomma, un database online di facile consultazione di tutte le aree e i parchi archeologici italiani. Un aiuto molto importante è rappresentato dal sito web di Federparchi che segnala, all’interno di ciascuna area protetta, tutti i punti di interesse, comprese le aree archeologiche, riportando le attività che vi si svolgono e le strutture sostenibili di riferimento. Spesso, insieme alle pubblicazioni delle singole aree archeologiche, rimane l’unica fonte. Per le aree che non sono comprese in un parco naturale, è più difficile capire come organizzare una visita che rispetti tutti i criteri di ecosostenibilità, ma non impossibile. Oltre alla già citata Guida Blu, vi sono altre pubblicazioni (quelle del Touring Club o della casa editrice Terre di Mezzo, per esempio), siti di associazioni (Legambiente, FAI, Coldiretti) e magazine online specializzati in sostenibilità che aiutano nella ricerca.

E se si pensasse in futuro a uno strumento ad hoc?

Autore

  • Chiara Boracchi

    Archeo-giornalista e ambientalista convinta, vede il recupero della memoria e la tutela del paesaggio e del territorio come due facce complementari di una stessa medaglia. Scrive per raccontare quello che ama e in cui crede. Per Archeostorie, coordina la sezione Archeologia & Ambiente ed è responsabile degli audio progetti. Nel tempo libero (esiste?) scatta foto, legge e pratica Aikido.

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