1. Cos’è l’ecoturismo
Il termine ecoturismo, contrazione delle parole ecologia e turismo, è stato coniato per la prima volta alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, grazie all’architetto messicano Hector Ceballos-Lascurain; il suo significato secondo la TIES – The international ecotourism society – è quello di un “turismo responsabile in aree naturali che conserva l’ambiente, sostiene il benessere della popolazione locale, e coinvolge l’interpretazione e l’istruzione”. Gli obiettivi sono la conoscenza del territorio e della sua storia, la condivisione di valori e saperi.
Se volessimo sintetizzare molto, potremmo dire che l’ecoturismo è principalmente un modo “lento” e a basso impatto ambientale di viaggiare nelle aree protette e nei parchi e riguarda tutto quello che essi contengono, dalla natura ai siti di interesse storico e archeologico, alle produzioni tipiche di qualità. Chi viaggia in questo modo viene chiamato ecoturista. Le strutture ricettive attente alla sostenibilità dei servizi o dei prodotti, e le attività attente all’ambiente, fanno parte del circuito ecoturistico.
2. Conoscenza e consapevolezza
3. Ecoturismo e profitto
Tutto questo, oltre a favorire una naturale tutela del paesaggio, produce anche un indotto che arricchisce le comunità locali, non depaupera il territorio e consente di ottenere fondi per migliorare la conservazione delle stesse aree protette e degli elementi che le compongono. Tale beneficio sia per gli enti locali, sia per le imprese private che si impegnano a operare secondo criteri di sostenibilità all’interno del territorio è del resto già previsto nei già menzionati principi TIES. Perciò implementare attività ecocompatibili anche all’interno delle aree archeologiche, e favorire le imprese private che sposano questo modo rispettoso e sano di fare profitto, può essere vantaggioso. Anche perché il giro d’affari è elevatissimo: secondo il XIII rapporto Ecotour turismo natura, presentato nell’aprile scorso, il fatturato del turismo sostenibile nelle aree protette nostrane è stato nel 2015 di oltre 12 miliardi di euro.
Cosa potrebbe voler dire ripensare un’area archeologica in chiave sostenibile? Si possono destinare alcuni spazi inutilizzati ad orti biologici, o proporre iniziative di educazione ambientale all’interno del sito, o dotare gli edifici (come il bookshop o la biglietteria) di pannelli solari o adottare accorgimenti per migliorarne l’efficienza energetica, o promuovere buone pratiche di gestione dei rifiuti, o curare la manutenzione delle aree verdi senza necessariamente utilizzare pesticidi, o favorire nei pressi dell’area attività commerciali poco impattanti, legate all’artigianato locale o alle produzioni tipiche. Gli spunti sono infiniti e i siti archeologici nel nostro Paese sono davvero tanti.
4. L’archeologia piace agli ecoturisti
5- L’ecoturismo dà un senso nuovo al patrimonio archeologico
Nel mondo, gli esempi di valorizzazione e recupero attraverso l’ecoturismo di aree di interesse archeologico immerse nella natura, sono molti e collaudati. Un esempio divenutato oramai famoso è quello del Santuario Històrico del Bosque de Pòmac, una delle 74 aree naturali protette dallo Stato del Perù. La foresta è abitata da oltre 4000 anni, l’economia agricola di popolazioni preispaniche come i Muchik e i Sicàn era molto sviluppata ma anche profondamente rispettosa del territorio, e così è stato poi per secoli. Ma negli anni Settanta l’integrità naturale e storico-archeologica della foresta è stata messa a dura prova a causa dei tagliatori illegali di legname, e nei due decenni successivi il conflitto interno allo Stato peruviano ha peggiorato la situazione. Il Santuario è stato istituito nel 2001 al termine degli scontri. I progetti di ripristino ambientale si sono fusi con quelli di recupero dell’”identità Muchik”: nella visione della antica popolazione, l’uomo e la foresta sono in perfetta armonia. Il turismo sostenibile nell’area è oggi la principale fonte di sviluppo per la popolazione ed è basato sulla valorizzazione di attività tradizionali, l’istituzione di percorsi in natura che prevedono osservazione di flora e fauna e visite ai siti archeologici.
In Italia una delle attività più diffuse per dare nuova vita alle aree archeologiche degradate è l’agricoltura biologica. Com’è accaduto, per esempio, al parco di Pontecagnano (sito di cui ci siamo occupati di recente) dove sono stati organizzati orti urbani in cui i soci del circolo di Legambiente Occhi Verdi, che ha in gestione l’area, coltivano ortaggi e varietà antiche. Questo ha permesso un riavvicinamento della popolazione locale al sito (che negli anni Ottanta era una discarica) e nuove opportunità economiche. Tra i tanti altri esempi, si può citare anche Hortus Urbis, un progetto di riqualifica nel parco dell’Appia Antica attraverso la creazione di piccoli orti, o il progetto Sterpaia nei Parchi della Val di Cornia, che prevede la coltivazione di grani antichi le cui farine sono vendute al museo archeologico di Piombino.
Dove trovare informazioni
E se si pensasse in futuro a uno strumento ad hoc?
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