Il mondo era impegnato in altro quando, lo scorso febbraio, l’amministrazione guidata da Donald Trump ha avviato esplosioni controllate all’interno di una delle riserve della biosfera Unesco, l’Organ Pipe Cactus National Monument in Arizona. Lo scopo finale è la costruzione del cosiddetto Muro di Trump, la barriera di separazione tra Stati Uniti e Messico.
La dinamite ha alterato irreversibilmente il volto di uno dei siti sacri dei nativi della regione, i Tohono O’odham: la Monument Hill, la collina dove questi deponevano le ossa dei rivali Apache uccisi in battaglia.
Un patrimonio culturale distrutto
Sappiamo bene che gli Apache erano guerrieri esperti e temibili, e sappiamo anche che dagli inizi del Novecento e fino alla metà del secolo, le loro scorrerie hanno rappresentato una minaccia costante per i villaggi dei più pacifici O’odham. Tuttavia i Tohono O’odham non hanno mai voluto rivelare la ragione alla base di questa loro pratica singolare di deposizione dei resti nemici, né il motivo della scelta del luogo.
Secondo l’etnoarcheologo Richard Martynec, esperto di storia e archeologia degli O’odham, gli scontri con gli Apache avrebbero sconvolto così nel profondo l’equilibrio spirituale della comunità, che serviva un rituale di purificazione per il sangue versato durante quegli scontri. La deposizione delle ossa degli Apache a Monument Hill sarebbe parte di tale rituale.
Certo è comunque che per i Tohono O’odham quella collina, ora devastata dalle esplosioni, rappresentava uno spazio cerimoniale sacro frequentato da secoli. Lo dice la tradizione orale dei Tohono O’odham, ma lo dicono anche le lettere scritte da Padre Kino, missionario gesuita di origine italiana che fece proseliti in Arizona verso la fine del Seicento.
Tutti poi – i locali ma anche la comunità scientifica – erano a conoscenza dell’esistenza di quei frammenti ossei dei guerrieri Apache disseminati per la Monument Hill. Eppure le pattuglie di frontiera, dopo aver eseguito le indagini prima delle detonazioni, hanno affermato di non avere identificato in zona alcun sito di interesse storico e culturale.
Il muro prima di tutto
Grandi sono stati la rabbia e lo sconcerto tra i Tohono O’odham e gli archeologi operanti nell’area. Grande è stato anche il sentimento di impotenza. Il governo Trump ha infatti ignorato qualsiasi testimonianza e appello, e ha evitato ogni genere di consultazione. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale (Department of Homeland Security, DHS) ha potuto procedere indisturbato nella sua opera di distruzione, eludendo ogni tipo di legge a tutela dei beni culturali e paesaggistici.
Il Dipartimento si è appellato infatti al Real ID Act, legge emanata a seguito dell’11 settembre 2001 che, in nome della sicurezza della nazione, consente al governo di aggirare qualsiasi legge, comprese quindi quelle che interferiscono con la costruzione di barriere fisiche alle frontiere. E a tutt’oggi, a mesi di distanza da quelle esplosioni, la cieca costruzione del muro sembra non conoscere né pause né ostacoli. Neppure la pandemia di Covid-19 è stata capace di arrestarla.
Attualmente il muro di Trump è praticamente a metà dell’opera, avendo coperto 411 degli 820 chilometri totali, posti come obiettivo da raggiungere entro agosto 2021. E dopo la Monument Hill, altri siti di notevole importanza culturale e naturalistica, localizzati a poca distanza dal confine con il Messico, sono a rischio.
I siti a rischio: Quitobaquito Springs
Forse già danneggiato irreparabilmente è il sito di Quitobaquito Springs, un’oasi straordinaria che si trova anch’essa all’interno dell’Organ Pipe Cactus National Monument, 400 metri a nord del confine. Le sorgenti d’acqua di Quitobaquito sono tra le pochissime del deserto del Sonora, e per questo sono state frequentate sin da epoche molto remote: le prime tracce di occupazione umana dell’area risalgono a più di 10000 anni fa.
In questo caso la costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico non sta mettendo a repentaglio solo i resti archeologici associati alle sorgenti: a rischio è un intero ecosistema.
Da mesi infatti gli operai impegnati nella costruzione del muro stanno pompando grandi quantità d’acqua dalle falde idriche sotterranee per ottenere cemento. E questa attività, unita alle vibrazioni generate dall’utilizzo dei macchinari pesanti e alle trivellazioni, sembra essere la causa dell’allarmante abbassamento del livello dell’acqua del bacino dell’oasi avvenuto negli ultimi tempi.
L’eventuale inaridimento dell’area provocherebbe effetti drammatici, soprattutto per le specie protette di animali acquatici che la abitano. L’apprensione degli O’odham nei riguardi delle sorti di Quitobaquito è enorme.
Nella mitologia degli Hia C-ed O’odham, ramo tribale dagli originari costumi nomadi ormai perduti, Quitobaquito Springs rappresenta addirittura il luogo primordiale della creazione del mondo. La sorgente è considerata tra i doni più grandi offerti dal dio creatore, il quale ha messo a disposizione del sostentamento della comunità l’acqua, gli animali e le piante medicinali di questo sito sacro. E a Quitobaquito Springs questa tribù celebra ancora significativi riti tradizionali, compie pellegrinaggi e rende omaggio agli antenati sepolti nel vecchio cimitero tribale.
Siti a rischio: Cabeza Prieta e Las Playas
A ovest di Quitobaquito, si trovano altri due siti archeologici relativi alla cultura O’odham e anch’essi potenzialmente in grave pericolo perché estremamente vicini alla frontiera internazionale.
Si tratta del sito di sepoltura con tombe a cista all’interno del rifugio naturale di Cabeza Prieta e del geoglifo di Las Playas. Quest’ultimo, particolarmente importante, è una gigantesca figura lunga 84 metri e larga 15, creata asportando i ciottoli scuri del pavimento desertico, e mettendo in contrasto il colore chiaro della sabbia sottostante con quello della superficie che la circonda.
Richard Martynec, che ha studiato il geoglifo, ritiene che il primo disegno sia stato opera degli Areneños, gli antichi predecessori degli Hia C-ed O’odham, e che si possa datare tra i 2000 e i 3000 anni fa. Segnava uno spazio magico ancestrale, e per questo è stato protetto e arricchito da tutte le generazioni di nativi che nei secoli hanno occupato l’area. Così è rimasto incontaminato per millenni.
Al geoglifo di Las Playas erano infatti legati tabù atavici e restrizioni sociali. L’assenza di rinvenimenti di reperti e di materiali di scarto attorno alla figura, così diffusi invece nei siti circostanti, ne sarebbe la prova. Secondo la testimonianza di un anziano O’odham, le ultime danze rituali attorno a questo impressionante disegno sul terreno hanno avuto luogo circa un secolo fa.
Oggi il timore che le pale dei bulldozer cancellino per sempre questa affascinante e antichissima opera dell’uomo, è più che mai giustificato, visto che si trova a soli 4,5 metri dal confine col Messico. In pratica, è sul confine. Sebbene non sia stato ancora chiarito se rientri o meno nei piani di costruzione del muro, il rifiuto da parte del Dipartimento di Sicurezza Nazionale alla proposta formale dei Tohono O’odham di creare una zona cuscinetto a salvaguardia del sito, non lascia di certo ben sperare.
Il muro di Trump: il colpo di grazia
Lo scempio della Monument Hill e le vicende legate ai siti culturali a rischio, sono solo l’ultimo anello della lunga catena di abusi subiti dal popolo O’odham sin dal 1854, quando la creazione del nuovo confine tra Stati Uniti e Messico ha tagliato in due, come una lama affilata, la loro terra: una parte nel sud dell’Arizona, l’altra nel nord della regione messicana del Sonora.
D’un tratto la linea immaginaria di una carta geografica, lunga quasi cento chilometri, ha separato un popolo frammentandone l’identità. Ma non solo: una tra le zone più miti del continente è diventata in breve tempo teatro del traffico illegale di droga, armi ed esseri umani.
Ora, la costruzione lungo la frontiera di una barriera alta nove metri, potrebbe significare il colpo di grazia per un popolo che, tra mille difficoltà, prova a conservare le proprie radici. Il muro infatti proibirà ai Tohono O’odham di varcare il confine per svolgere tutte quelle attività che finora erano loro concesse in virtù di un permesso speciale: andare a trovare parenti e amici, accedere a luoghi di culto, partecipare a funzioni religiose e visitare siti di sepoltura.
E gli esseri umani non sono le sole vittime del muro di Trump: dove questo è già costruito, sta impedendo le consuete migrazioni delle decine di specie selvatiche del deserto del Sonora. Tra queste ci sono anche i giaguari venerati dagli O’odham, che mai come ora rischiano l’estinzione.
Il muro dell’indifferenza
Sfortunatamente Donald Trump non comprende che, di fatto, sta distruggendo proprio ciò che quella barriera d’acciaio dovrebbe proteggere.
Il muro fisico, voluto così ossessivamente, in fondo non rappresenta che la proiezione del muro mentale del presidente americano. Il muro dal quale, per l’ennesima volta, egli ha perso l’occasione di affacciarsi: quello dell’indifferenza per gli interessi delle minoranze più vulnerabili, per la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.
Il 3 novembre prossimo il popolo statunitense, in larga parte affamato di giustizia sociale come dimostra la crescente diffusione del movimento Black Lives Matter, andrà nuovamente al voto. Qualunque sia l’esito delle elezioni, la certezza è che per “fare di nuovo l’America grande” davvero, è necessario far cadere più muri di quanti se ne debbano costruire.
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