Paestum, la pandemia e la lezione di Camus

15 Aprile 2021
In visita a Paestum, Albert Camus sente forte il ritorno alle origini e ci insegna che proprio dalle rovine parte la rinascita. E la salvezza

“C’è qualcosa tra me e i templi greci. All’ultimo momento interviene sempre qualcosa che mi impedisce di raggiungerli”. Così scrive Albert Camus sul suo taccuino l’8 dicembre del 1954. È in Italia per una serie di conferenze, dopo le violente polemiche seguite all’uscita del suo saggio L’uomo in rivolta e la sofferta disputa con Sartre. Ha la febbre: “viaggiatore rinchiuso con Napoli intorno”, dal suo letto vede il mare e desidera raggiungere Paestum.

La Grecia, fulcro della civiltà mediterranea, cuore della perfezione del mondo, gli sfugge da tempo. Aveva progettato un viaggio in Grecia già nell’estate del 1939, ma era scoppiata la guerra. Così, in un inaspettato impeto di vitalità, il 9 dicembre sale in auto dirigendosi verso la penisola sorrentina con l’amico Nicola Chiaromonte, intellettuale antifascista. Sorrento, Amalfi, poi Paestum. Camus giunge finalmente, se non in Grecia, in Magna Grecia.

Visita inusuale a Paestum

Arrivato a Paestum quando i cancelli d’ingresso sono ormai chiusi, non si dà per vinto e scavalca la recinzione del sito. Sosta, incantato, sotto le colonne doriche dei templi. Lui, il mistico senza Dio, si affida al manto paterno di Poseidone sul far di un tramonto che parla l’idioma dei popoli migranti dal mare. Idioma ‘straniero’ proprio come il piccolo Albert, francese d’Algeria.

Ma il Mediterraneo è capace di plasmare legami tra chi abita le sue sponde, i suoi luoghi. Camus non può resistere al richiamo di quelle pietre antiche, “ici le cœur se tait”, qui il cuore tace, ammutolisce. E l’animo, scevro da impacci, si mette a narrare, e il paesaggio detta la parola nel riverbero abbacinante della luce crepuscolare.

“Quando arriviamo davanti al tempio di Poseidone – annota nel suo diario – i corvi, che stanno già riposando, si alzano in volo, in uno straordinario tumulto di ali e di gridi, girano intorno al tempio, s’avventano in ogni direzione e ripartono, come per salutare la mirabile apparizione, davanti ai nostri occhi, di un essere fatto di pietra, ma vivo e indimenticabile”. Il fruscio ovattato della vita echeggia tra le navate, mentre i bagliori sfumano preludendo all’epilogo del giorno.

Lo scrittore, il mattino dopo, ritorna smanioso davanti al tempio. “Non è la malinconia delle cose cadute in rovina a stringere il cuore – segna negli appunti -, ma l’amore disperato di ciò che dura eternamente nell’eterna giovinezza, l’amore per l’avvenire. […] Difficile staccarmi da questi luoghi, i primi dopo Tipasa dove io abbia conosciuto un abbandono di tutta la mia persona”.

Tipasa è la città punica, romana e bizantina, distante un’ottantina di chilometri da Algeri, che Camus sentì abitata da divinità “che parlano al sole e al profumo delle foglie d’assenzio, nell’armatura argentea del mare, nel cielo azzurro, crudo”. Tipasa come Paestum. “C’est là ma foi et selon moi le principe de l’art et de la vie”, questa è la mia fede e secondo me il principio dell’arte e della vita.

A Paestum l’homme révolté ascende all’origine di ogni cosa, si riconcilia con la natura e i suoi cicli, trova la sua misura nel mare cilentano che fa salmastro ogni respiro. Camus evocherà sempre quel mare domestico dell’infanzia povera, vissuta sulla costa africana: ϑάλασσα da cui tutti veniamo. Che ci isola, ci definisce, per poi ineluttabilmente accomunarci. Nostalgia – o ‘nostalgeria’ come dirà il filosofo Derrida – che per Camus si concretizza ancora una volta a Paestum in un tempo perduto e mitico, dentro il pensiero meridiano. Il mare che non è solo riva, ma soprattutto onda.

Il mare passa e rimane. Così bisognerebbe amare, fedeli e fuggenti”.

L’arte contro la ‘peste’

Nel 1957, tre anni dopo la visita a Paestum, lo scrittore riceve il premio Nobel per la letteratura. Ne sono passati dieci da quando ha pubblicato il suo famoso romanzo La peste, prepotentemente tornato alla ribalta nei primi giorni di diffusione del Coronavirus. Il capolavoro di Camus racconta il dilagare di un’epidemia di peste che si manifesta in un anno imprecisato degli anni Quaranta del secolo scorso a Orano, una delle città protagoniste delle battaglie d’indipendenza che portarono alla decolonizzazione dell’Algeria dalla Francia. Potrebbe però essere tranquillamente Codogno o Wuhan.

Perché quella di Camus è la metafora del mortale flagello che dilagò in Europa nella prima metà del secolo scorso con il nome di nazionalsocialismo e provocò paura, esilio, sfilacciò esistenze; è, in senso più ampio, la metafora della cultura della morte. E quella attuale è la battaglia contro una pandemia che allo stesso modo ha modificato relazioni, economia e diritti. Malattie devastanti che paiono radicarsi in un supplizio perenne. Tuttavia esiste una cura: in entrambi i casi la compassione e la solidarietà possono vincere la disperazione del lazzaretto.

Ne La peste alla fine il morbo si attenuerà, perderà virulenza, e la quarantena finirà e la vita riprenderà a scorrere tra gli oranesi che faranno festa. Ma Rieux, l’alter ego letterario di Camus e voce narrante del romanzo, “ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

Rieux parla ancora a noi contemporanei, esorta a restare vigili. Lui come Tucidide, Boccaccio, Defoe, Manzoni. “Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti”. Perché l’angoscia del futuro, la solitudine dell’isolamento coatto, la malattia che svela l’assurdità della condizione terrena riguardano tutti. Eppure, in un mondo che chiude i battenti a causa di un virus invisibile, la vita resta aperta negli spiragli che siamo in grado di riconoscere. Frontiere semichiuse che invitano all’incontro, ma solo se si sa sbirciare.

“La maggior parte di noi – pronuncerà Camus durante la consegna del Nobel – nel mio Paese e in Europa, hanno rifiutato questo nichilismo e si sono messi alla ricerca di una legittimità; hanno dovuto costruirsi un’arte per vivere in tempi calamitosi, per nascere una seconda volta e lottare poi a viso scoperto contro l’istinto di morte sempre presente nella nostra storia”. Dall’uomo ‘solitaire’ all’uomo ‘solidaire’. Né filosofo né letterato, semplicemente portavoce di quell’interiorità artistica da scoprire in ognuno di noi.

La lezione perenne di Camus

Comprendere, non giudicare. Rifiutare, non rinunciare. Mai chiudere gli occhi di fronte alla Storia, anche quando non conviene. La lezione di Camus è denunciare ogni orrore, dalla parte di chi è senza voce, ma senza alzare la voce. È anche e soprattutto l’atto di ribellione, il ‘cogito’ camusiano “mi rivolto, dunque siamo”, nello scavalcare quei cancelli chiusi per vedere gli dei di pietra, “incessante meraviglia” dalle “enormi colonne di spugna rosa, di sughero dorato” sotto “la porpora del cielo”.

È anche il continuare a guardare il pallore del marmo che riflette la luce delle stelle, sfidando il freddo notturno sul balcone della camera dell’albergo ‘Nettuno’ con vista sui templi. È anche il ritornare al mattino, malgrado la pioggia, nel campo di ruderi per riammirarli in un’emozione “a due dita dal piangere”. È il non mollare, il cercare “nel bel mezzo dell’inverno” lo scampolo di “un’invincibile estate”. L’arte antica dota l’umanità di un mezzo di salvataggio, una dottrina della salvezza: la bellezza ribelle.

L’arte in un certo senso è una rivolta contro il mondo in ciò che v’è di impreciso e di incompiuto”.

Malato di tubercolosi dall’età di 17 anni, Camus muore a 47 in un incidente stradale il 4 gennaio 1960 a un centinaio di chilometri da Parigi. Il destino ha le sue strade. Era riuscito a visitare la Grecia soltanto nell’aprile del 1955, ma l’aveva scoperta l’anno prima a Paestum. La visione dei templi pestani, più che quella dei resti di Pompei, città dei Romani “parfois raffinés jamais civilisés”, talvolta raffinati mai civilizzati, fu per lui pellegrinaggio verso le origini.

A noi, imprigionati tra l’ossessiva selfie-crazia e l’improrogabile lockdown, può capitare di udire ancora l’eco delle parole di un pensatore scomodo che perseguì non un ritorno all’antico, bensì un recupero, nell’uomo moderno, degli elementi naturali da sempre suoi. “Al di là del nichilismo, noi tutti, tra le rovine, prepariamo una rinascita. Ma pochi lo sanno”. Ritornare a vivere dalla polvere.

Nel gesto della rivolta si apre la scommessa. Senza bisogno di eroi né di santi, ma semplicemente di persone a cui ancora ammutolisca il cuore. Come quando si sta sotto le colonne di un tempio dorico, a Paestum.

Autore

  • Claudia Procentese

    Spesso mi chiedono come faccio a conciliare il lavoro di cronaca e inchiesta giornalistica con la passione e lo studio dell'archeologia. Non nascondo che alcuni, i ‘puristi’, storcono il naso. La loro domanda è: ma tu che vuoi fare nella vita? Cronaca. È stata cronaca. Noi siamo cronaca. Fare cronaca è dare una forma alla storia su cui inciampiamo tutti. E quella antica non è un catalogo di cocci, ma la ricerca viva di noi stessi.

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2 Commenti

  1. Mario

    straordinariamente interessante

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  2. Rosa Bianco

    Strabili con i tuoi scritti e le tue acute riflessioni. Come sempre ti ammiro!

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