Si è conclusa da poco una delle mostre più intriganti organizzate negli ultimi anni dal British Museum di Londra: “Ancient lives new discoveries. Eight mummies, eight stories” a cura di John Taylor e Daniel Antoine. In questa occasione il museo londinese ha messo in mostra otto mummie appartenenti alla propria collezione, ognuna delle quali scelta accuratamente perché significativa di un preciso aspetto della vita quotidiana (e del pensiero dell’aldilà) di persone che vissero in contesti sociali diversi, lungo le rive del Nilo: i defunti infatti sono stati selezionati con lo scopo di abbracciare un arco cronologico più ampio possibile – dal 3500 a.C al 700 d.C. – e garantire un range di età e sessi diversificato. Dal Fayyum al Sudan, questi silenziosi testimoni dell’antichità egizia hanno dato corpo a una esposizione che, grazie all’impiego di tecnologie molto sofisticate, ha riscosso un successo di pubblico notevole.
La mostra si è rivelata particolarmente rispettosa di questi delicati reperti e ha offerto al visitatore momenti di profonda empatia facendo emergere, per l’appunto, aspetti salienti della vita di queste persone: strutturata come un percorso cronologico a tappe, a fianco di ciascuna mummia e del suo corredo funerario è stato posizionato un monitor touch screen al quale è stato aggiunto uno speciale sensore circolare posto al di sotto dello schermo. Toccando il sensore era possibile interrogare i defunti così da conoscere la dieta alimentare che seguirono, le malattie di cui soffrirono, ma anche le loro scelte religiose e cultuali grazie a speciali approfondimenti, possibili per mezzo di schede analitiche sugli amuleti nascosti tra le bende.
Credo che esporre defunti, al di là della civiltà antica alla quale appartengono, sia uno degli esercizi museografici più complessi in assoluto. Facile, facilissimo è perdere il contatto con la vera natura di questi “speciali reperti” che necessitano sempre e comunque di particolari considerazioni etiche: per soddisfare la nostra sete di conoscenza non dobbiamo correre il rischio di violare la loro natura, cura, dignità e rispetto. Avendola visitata personalmente – e studiata attentamente sia dal punto di vista dell’impiego delle nuove tecnologie, della scelta museografica fino all’apparato didascalico, di qualità e chiarezza ineccepibili – devo costatare che mai si è perso di vista per un solo istante, di cosa o meglio di chi si stava parlando; non a caso, alcune testate giornalistiche hanno velatamente criticato l’esposizione definendola “per nulla spaventosa”. E’ dunque questo che le persone si aspettano visitando una mostra che affronta questo tema? Siamo forse ancora legati alla tradizione novecentesca delle autopsie in pubblico?
Dallo sbendaggio vero di una mummia a quello virtuale
Sono lontani – per fortuna – i tempi in cui le mummie venivano sbendate di fronte alle folle. Fa un certo effetto pensare che centinaia di persone si raccoglievano nelle sale buie e polverose di alcune delle università più famose del mondo solo (si fa per dire) per assistere a vere e proprie autopsie su corpi antichi. Ben 500 persone si radunarono a Manchester per vedere con i loro occhi l’egittologa Margaret Murray mentre sbendava un corpo appartenente alla Tomba dei due Fratelli Nakht-ankh e Khnum-nakht scoperta intatta a Deir Rifeh in Egitto, i cui preziosi oggetti confluirono nelle proprietà della collezione permanente del museo inglese.
La pratica dello sbendaggio in pubblico rappresentò per molto tempo il momento di massima conoscenza durante il quale i segreti del passato riemergevano dalla stessa voce dei protagonisti. Chissà quale dovette essere lo stupore e anche l’angoscia di vedere dalle sapienti mani di famosi egittologi afferrare con cura le bende e, con movimenti lenti e premurosi, offrire alla vista e alla pubblica soddisfazione i resti di antichi e importanti personaggi vissuti migliaia di anni fa.
Suggestiva, certamente, ma altrettanto dannosa, la pratica di togliere le bende per scoprire non solo chi ma soprattutto cosa fosse stato gelosamente custodito, col passare del tempo divenne sempre meno usuale. La ricerca evidenziò che i corpi, senza il loro prezioso supporto tessile, cominciavano a deteriorarsi irrimediabilmente; da qui nacque la necessità di trovare alternative possibili affinché la conoscenza degli antichi egizi non restasse incompiuta: era difatti indispensabile non rimuovere più le bende ma al contempo studiare un metodo che consentisse di progredire nell’acquisizione di un numero sempre maggiore di dati antropologici, rituali, funerari, botanici e via di seguito. La conservazione doveva essere affiancata alla promozione della conoscenza.
Il ruolo dei raggi X e delle tomografie
Così vennero fatti i primi timidi tentativi di sottoporre le mummie egizie alla scansione con raggi X (una comunissima radiografia). Sono ben note, tanto da fare il giro del mondo in pochissimo tempo, le radiografie del cranio del faraone Tutankhamon, da cui la famosa, e recentemente smentita, leggenda secondo la quale il re fanciullo morì a causa di una ferita alla testa. Le radiografie, utilissime ma non esaustive, garantivano almeno di poter comprendere e studiare da vicino l’ossatura dei defunti, facendosi un’idea dell’età, del sesso, ma anche scoprire particolari anatomici interessanti quali ad esempio malformazioni e malattie legate alla tipologia di alimentazione che il defunto aveva avuto in vita. Sono proprio le prime radiografie alla dentatura che ci raccontano di un popolo che aveva diffusi problemi di carie e ascessi, nonostante sappiamo da molti documenti che l’igiene dentale era tenuta in grande considerazione. Le radiografie, sebbene non invasive e sicure dal punto di vista della conservazione, non consentivano però di andare oltre un certo limite anche nella resa dell’immagine poiché, in bianco e nero, non bastavano per comprendere ad esempio i colori dell’incarnato. Questo ostacolo è stato ben presto superato grazie all’evoluzione della tecnologia che ha portato a compimento studi significativi sulle strumentazioni da impiegare in ambito medico.
Oggi molti musei possono inviare in centri medici diagnostici o addirittura all’ospedale mummie e sarcofagi (evitando quindi di causare danni anche ai contenitori, oltre che al contenuto) dove possono essere effettuate analisi specialistiche quali la TC (tomografia computerizzata). Il principio del funzionamento della TC è una scansione con radiazioni ionizzanti che vengono trasformate in immagini analizzabili per sezioni o strati che, attraverso specifiche elaborazioni, possono essere trasformate in immagini 3D.
Oltre ad un passo avanti da giganti nella conoscenza del reperto dal punto di vista antropologico e bioarcheologico, i musei oggi sfruttano queste soluzioni per soddisfare la sete di conoscenza anche dei diversi pubblici. Poco o nulla è cambiato da questo punto di vista dai primi del Novecento!
Se schiere di persone affollavano i teatri per assistere ad autopsie archeologiche, oggi in moltissimi continuano a essere attratti in maniera quasi irresistibile dalle mummie (in esposizione permanente) e il numero di visitatori di musei quali l’Egizio di Torino o l’Ashmolean di Oxford ne danno ampia conferma. Per soddisfare dunque la voglia di conoscere dal “vivo” questi antichi egizi alcuni musei hanno affrontato il problema cercando di progettare soluzioni, spesso virtuali, espositive, alcune di grande impatto. Oltre alla mostra del British (che è la seconda organizzata dal museo in questa direzione), vale la pena di menzionare il Medelhavsmuseet di Stoccolma che in collaborazione con lo Swedish Interactive Institute ha digitalizzato alcune scansioni mediche e le ha trasformate in un 3D interattivo, a uso e consumo non di specialisti ma del pubblico. Il progetto è partito dall’analisi chimica e antropologica della mummia del sacerdote Neswaiu e allargandosi poi allo studio dei reperti ad esso afferenti.
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