31 dicembre 192 d.C., palazzo imperiale di Commodo, a Roma.“Cosa stai nascondendo? Uno dei tuoi disegni? Dài, fammi vedere, sciocchino!”
Filocommodo arrossisce come il bambinetto che è. Il foglietto ricavato dalla corteccia di tiglio che tiene dietro la schiena gli brucia fra le dita quasi fosse un tizzone ardente. Lo sa che non deve prendere nulla dalla camera dell’imperatore, ma non ha saputo resistere: Il foglio piegato era abbandonato sopra il letto, non pareva davvero importante, coperto solo da un paio di ghiribizzi indecifrabili. Commodo è solito scarabocchiare quando è ubriaco, o vuole appuntarsi qualcosa che fra i fumi del vino gli sembra importantissima ma poi dimentica comunque.
Filocommodo spesso, appena l’imperatore esce, sgattaiola dentro la stanza e i fogli quasi nuovi, che sono un bene prezioso, e li poi usa per disegnare. Ha talento, dicono tutti, e gli piace provare e riprovare, cancellando e pasticciando poi veloce i segni che non gli sono riusciti bene. Ha undici anni, ed è conscio che è un grande onore essere stato scelto come coppiere e paggio dell’imperatore, ma il suo sogno, anche se non lo osa confessare a nessuno, è diventare un artista.
Porge quindi titubante il maltolto a Marcia, tenendo il mento reclinato sullo sterno, senza osare guardarla negli occhi. Non tanto perché tema di venire sgridato – Commodo lo adora, nessuno oserebbe fargli il minimo rilievo, onde evitare la terribile collera del dominus! – ma perché lo schizzo è un ritratto abbozzato della donna, e Filocommodo si vergogna, e tanto, a farglielo vedere. Ai suoi occhi di adolescente invaghito, nessun disegno rende la bellezza di Marcia, la sua pelle candida e liscia, il suo profilo dritto, lo sguardo dolce, intelligente e appassionato che illumina i suoi occhi, e di certo sono del tutto inadeguati quei quattro segni goffi che ha tracciato.
“Sì, domina… ma non è venuto bene, tu sei molto più bella…” farfuglia Filocommodo, avvampando.
Marcia lo carezza, fissando il disegno un po’ incerto: “Ma no, è belliss…”
Si blocca. Seguendo la riga che dovrebbe raffigurare uno dei suoi riccioli, ha scorto dei tratti che formano alcune parole. Fissa i segni, li osserva. Ormai vive con Commodo da abbastanza tempo per saper decifrare la sua scrittura anche quando è vergata da ubriaco, e si riduce ad un gomitolo di linee prive di senso per tutti. Ma non per lei. Quello che ha scritto sulla cera è “morte” e dei nomi. Tre. Il primo è il suo.
“Domina, sei pallida, stai male?” balbetta Filocommodo, che la vede divenire bianca mentre un improvviso brivido le fa tremare le mani e il corpo.
Lei posa su di lui uno sguardo vitreo e privo di espressione: “No, – dice in un sussurro, come a voler nascondere il tremito nella voce – sto bene, benissimo. Mi sono solo ricordata che devo immediatamente parlare con Leto ed Eclecto. Valli a chiamare, per favore, e portali da me subito!”
Quando un paio di ore prima, dopo l’ennesima lite, Commodo si è ritirato nella sua stanza sibilandole: “Sono stufo di te, piccola cagna cristiana, delle tue continue critiche! Non puoi contestare l’imperatore come se l’impero fosse tuo! Io prendo le decisioni, non tu e i tuoi due amichetti! Tutto questo deve finire!”, non ha dato peso alle sue parole, simili a tante altre offese che si sente gettare addosso da anni quando lui è ubriaco, o infuriato, o semplicemente nervoso. Si è limitata a ricacciare in gola le lacrime e a nascondere con una piega della tunica i segni dei lividi che la presa violenta di Commodo le ha lasciato sul braccio. Concubina imperiale! Si chiede quante siano le donne, nell’impero, che invidiano la sua posizione di amante ufficiale dell’imperatore. Tutte, probabilmente. Cosa si potrebbe desiderare di più e di meglio che essere la donna di un giovane uomo bello, biondo, aitante, atletico che regge le sorti del mondo? Essergli accanto alle feste, ai banchetti, essere cantata dai poeti, ritratta dagli scultori, disegnata di nascosto persino dai paggi innamorati della reggia? Ma non sanno, quelle donne, cosa ci sia dietro questa facciata di apparente fortuna e ricchezza e amore. Lei sì, lo ha scoperto. Purtroppo. Ha dovuto abituarsi alle offese continue, alle grida, alla violenza, alle umiliazioni. Chi la considera padrona di tutto, non sa che non è padrona nemmeno di se stessa, in balia dei capricci di un bambino egoista e imprevedibile qual è Commodo.
Lo ha amato. Sì, un tempo sì, lo ha amato. Le è apparso, all’inizio, come un dio sfolgorante, l’Ercole di cui ama vestire i panni quando combatte nel Circo, attorniato dagli amici gladiatori. Gli unici con cui si sente a suo agio e che considera i suoi veri compagni, differenti e opposti rispetto ai senatori e patrizi che lo affiancano da quando è nato. Commodo, figlio di Marco Aurelio, nipote adottivo di Antonino Pio, e quindi erede degli augusti Traiano e Adriano. Non si dà stirpe più nobile della sua in tutto l’impero, famiglia più potente, schiatta più legata alle sorti di Roma. Ma lui ha sempre sofferto per questa eredità pesante, e forse sotto sotto non l’ha mai voluta. Il padre l’aveva accettata con la rassegnazione del filosofo stoico, come un dovere a cui non è lecito sottrarsi. Lui no. Il suo animo impulsivo, trasgressivo e portato all’eccesso non ha mai sopportato i lacci dell’etichetta di corte, le limitazioni che la carica impone a chi si trova a gestire il potere. Forse anche innamorarsi di lei, innalzarla, portarla alla reggia, imporla come concubina anche se già moglie di uno dei suoi servi, e quindi vivere in manifesto stato di adulterio con una liberta cristiana, è stato un modo sottile di vendicarsi dell’aristocrazia paludata, del decoro e del mos maiorum così tanto lodato a parole e così schernito, sempre, nei fatti.
Poi cos’è successo? Non trova risposta. Quante volte, durante le nottate di solitudine nella camera regale, mentre lui era fuori a gozzovigliare con gli amici gladiatori, o a letto con qualche amante, o russava ubriaco e sfatto accanto a lei, si è chiesta quando la favola si fosse trasformata in quell’incubo. In quella sequela infinita di litigi, schiaffi, insulti, umiliazioni, violenza consumata a freddo e in modi sempre più diversi e crudeli. Quando il biondo e bel giovane che l’aveva affascinata si è mutato nel mostro che non sente ragioni e non accetta critiche, così incentrato su di sé da considerare ogni altro essere umano una sua appendice trascurabile e sacrificabile non appena causa qualche noia. Gli ha visto condannare a morte sorella, cognati, amici del padre e amici suoi, senza un ripensamento, senza un’ombra di titubanza. Con l’indifferenza con cui un bambino viziato getta nel fuoco i giocattoli che non lo soddisfano più. E ora…
“Che succede, Marcia?” Eclecto e Leto sono giunti trafelati e guardinghi. Sono una strana coppia, l’alto e aristocratico generale che condensa in sé tutta l’alterigia di Roma, e il piccolo e smilzo ex servo egiziano che riassume nei suoi tratti secoli di furbizia levantina usata per schivare una miseria atavica.
Marcia non dice loro nulla, si limita a porgere il foglietto spiegazzato e indicare il punto in cui sono vergati i loro nomi.
“È una lista di proscrizione! Ci vuole condannare a morte!” sibila Eclecto.
“Non capisco, non capisco! È perché abbiamo cercato di dissuaderlo dal festeggiare l’inizio dell’anno nella maniera sconsiderata che vuole lui, presentandosi davanti al popolo non con le insegne imperiali ma vestito da gladiatore? È perché cerchiamo di evitare che si renda ridicolo davanti al mondo? Per questo siamo puniti?” Emilio Leto scuote la testa, basito. Da militare e da Prefetto del Pretorio è incapace di far fronte a un così assurdo tradimento.
“Te ne stupisci? – chiede sarcastico Eclecto – Lo sappiamo tutti da mesi che è fuori controllo. Il bere gli ha fatto perdere il senno. Semmai lo ha avuto.”
“È l’imperatore, non puoi parlarne così…” protesta Leto.
Eclecto sbuffa, gli occhietti neri si riducono a due punte di spilli:
“Ti ha appena condannato a morte, idiota! Cosa deve fare perché tu ti renda conto che è completamente impazzito? Basta con le giustificazioni e con il rispetto! Dobbiamo sbrigarcela noi, ora. O siamo morti.”
“Ma vuol dire… ucciderlo! Possiamo chiamare Pertinace, ma non può certo agire subito. E Commodo sarà qua a momenti. È andato al Circo ad allenarsi! Non abbiamo il tempo di…”
“Ci penserò io.”
Marcia stessa non crede di essere riuscita a pronunciare quella frase. I due uomini la guardano, stupiti.
“Ci penserò io – ripete, scandendo le parole, come per rassicurarli, o forse per impedirsi di rimangiarsi quanto ha detto – ho un potente calmante che mi ha dato Narcisso, il suo allenatore. È a base di elleboro. Se viene dato in una dose più forte, è letale.”
“Ma…” protesta debolmente ancora Leto.
“Ma niente! – trancia corto Eclecto – Marcia è in grado di occuparsi della faccenda da sola, hai sentito! Tu avverti Pertinace e tieniti pronto con i tuoi pretoriani a intervenire per calmare eventuali sommosse quando annunceremo la morte dell’imperatore.”
Leto annuisce, come per un riflesso condizionato esegue uno sbrigativo saluto militare ed esce, nel buio del corridoio.
“Te la senti?” Eclecto si avvicina a Marcia, tenta di metterle un braccio attorno alle spalle, ma lei si sottrae al suo abbraccio, infastidita.
Lui ghigna: “Non è certo così che un marito si aspetta reagisca sua moglie…”
“Di solito un marito non cede la moglie perché diventi l’amante di un altro.”
“L’altro era l’imperatore” scandisce lui, irritato.
“E tu avevi troppa convenienza ad assecondarlo.”
“L’avevamo entrambi, mi pare. In questi anni non ti sei sottratta ai suoi abbracci come ora fai con i miei.”
“Mi faccio abbracciare solo da un uomo per volta, Eclecto. E tu hai passato il tuo turno, ormai, tanto tempo fa.”
Eclecto si produce in un ironico inchino: “Certo, domina, comprendo. E me ne vado. Non vorrei che, tornando, Commodo mi trovasse a colloquio da solo con la sua donna. Potrebbe mettere in dubbio la tua fedeltà.”
“Bastardo” sibila Marcia mentre lo guarda uscire.
“Il mio bagno, donna! E una coppa di vino!”
Il sudore, la polvere del circo, impastata con l’olio che unge il corpo, disegnano le pieghe di un fisico possente, forgiato dall’esercizio. Gli addominali scolpiti, i muscoli tesi, le spalle sono quelle di un atleta che si allena senza risparmio, ogni giorno. Il volto, giudica però Marcia, no.
Le rughe, lo sguardo spento, la piega amara della bocca, i capelli biondastri incollati alla fronte per uno sforzo che si impone ma che in realtà non regge più e non gli dà alcun piacere: la faccia di Commmodo è quella di un uomo consumato da se stesso.
È ubriaco. Marcia lo sente dalla puzza di vino nell’alito quando le urla in faccia. Narcisso, il suo allenatore, lo ha riportato dal Circo e lo sorregge per impedirigli di crollare a terra. I due si scambiano uno sguardo furtivo ed eloquente. Servono a corte da sempre, sono cresciuti assieme, anche se oramai si incrociano solo in queste circostanze, quando Commodo non riesce a reggersi in piedi e loro pietosi lo raccolgono e lo nascondono alla vista altrui.
“Eccola, mio signore.”
Gli porge la coppa, non ha il coraggio di guardarlo. Lo ha speso tutto poco prima quando ha versato nel vino la polvere di elleboro, e ha dovuto farlo tenendo la boccetta con entrambe le mani, perché le tremavano troppo. Commodo però non se ne accorge: prende di malagrazia la coppa e trangugia, come un animale che si tuffa a bere nella prima pozzanghera lungo strada.
“E ora vattene, puttana! – urla – voglio il mio bagno!”
Restano lì, mentre due schiavi lo prendono di peso e lo portano verso la sala adiacente, dove una vasca di marmo piena di acqua calda lo attende.
“Ha bevuto anche al Circo, vero?” chiede Marcia.
Narcisso annuisce: “Vino schietto. Non lo diluisce nemmeno più. Ormai se non beve non regge.”
“E come fa a combattere? Si vanta di riuscire a sgominare intere schiere di gladiatori…”
“Ci lasciamo sgominare. Siamo suoi schiavi, in fondo.”
“Come tutti.”
Un trambusto, rumore di vasi d’argento che cadono a terra, il tonfo di un corpo che incespica e crolla, grida di servi. La porta si spalanca e uno degli schiavi corre da Marcia: “L’imperatore si sente male!”
Marcia e Narcisso entrano nella stanza. Commodo sta tentando di rialzarsi, è pallido e sudato, respira a fatica. Per terra accanto a lui una pozza di vomito scuro.
Marcia gli si china accanto, ma Commodo la respinge: “Puttana, cosa mi hai dato da bere? Narcisso, annusa quella coppa, questa troia mi ha avvelenato?”
Narcisso, imbarazzato, prima tituba, poi obbedisce all’ordine, tuffa il naso nel bicchiere, odora il poco liquido rimasto sul fondo, dopo aver rapidamente valutato con occhio esperto il colore del vomito a terra.
Marcia, pallida, ferma all’altro lato della stanza, in piedi, gli lancia un’occhiata implorante. Lo sa che ha capito. È in grado di riconoscere i sintomi di Commodo e l’odore dell’elleboro. Lui stesso gliel’ha dato, mesi prima, insegnandole quando usarlo. Ti prego, ti prego, ti prego – cerca di dirgli silenziosamente – non confermargli che c’è del veleno nella coppa, ti prego.
“Non c’è niente nel vino, mio signore. Hai solo vomitato perché non devi bere e subito dopo fare il bagno – mente Narcisso con voce ferma, e lancia uno sguardo rassicurante a Marcia – Lo sai che bere e bagnarsi subito dopo è contrario a tutte le regole di noi gladiatori…”
“Noi gladiatori… – balbetta Commodo, cercando di calmare l’affanno – Noi gladiatori… hai ragione… noi gladiatori lo sappiamo… non devo fare il bagno…”
Narcisso si china su di lui e lo rialza: “Ora, mio signore, sei stanco, stenditi a letto a riposare, ti accompagno e Marcia si occuperà di te…”
“No! – grida Commodo, passando in un attimo dall’affanno all’ira – pensi che sia un debole? Pensi che basti una coppa di vino a farmi crollare come una donna? Sono un uomo, per gli dei! Un gladiatore! Pensi che perché sono un patrizio non sia buono a niente, eh?”
“N-no, mio signore!”
“E allora, per dio, non trattarmi come tale! E non lasciarmi con questa puttana infida! Cosa credi? Non vede l’ora di uccidermi, ma non durerà tanto. Domani sarà messa a morte!”
Un eccesso di tosse gli taglia il respiro.
Narcisso sbianca. Marcia! Condannata a morte! Non ci può credere. La guarda, la vede in piedi, pallida ma non stupita. Lo sapeva già. La vuole uccidere davvero. Ecco il perché del veleno, ecco il perché di tutto.
L’imperatore tossisce, sputa, rigetta altra fiele sul pavimento. Marcia è sempre più pallida. Ormai Commodo deve aver espulso quasi tutto il vino avvelenato, non c’è più speranza, è perduta.
“Mio signore – dice Narcisso, improvvisamente, con una risata – hai ragione, stai meglio, si vede. Sei forte come un toro! Non posso trattarti come una donnetta o un bambino e metterti a letto! Secondo me, anzi, quello che ti farebbe bene per espellere tutto l’umore cattivo che hai in corpo, è un po’ di sano esercizio. Qualche presa di lotta, vuoi?”
Marcia guarda Narcisso basita. Non riesce a capire cosa abbia in mente. O forse sì. Comodo tossisce ancora, lancia al suo allenatore un’occhiata perplessa e speranzosa al tempo stesso, come quella di un bimbo che chiede al padre di rassicurarlo che va tutto bene.
“La lotta… hai ragione, mi farà stare subito meglio – si alza aggrappandosi a un tavolinetto – sono forte, io, sono un gladiatore…”
Si slancia traballando verso Narcisso, travolgendolo con il suo peso morto, ciò che resta della sua forza. L’allenatore cade a terra, sotto di lui. Commodo si avvinghia, con cattiveria, con disperazione, con lo spasmo belluino di animale ferito. Narcisso si divincola, lo agguanta, lo rigira, con l’avambraccio gli cinge il collo.
Crack.
Un rumore, sordo, improvviso, di vertebre spezzate, di cartilagini che si frantumano. Commodo spalanca gli occhi in un ultimo sguardo stupito, incapace di credere a quel tradimento.
Crolla sul pavimento, supino.
“O mio Dio!” mormora Marcia.
Narcisso ansima, stravolto.
“È morto – dice – Ora non hai più nulla da temere da lui.”
Marcia sente una lacrima spuntarle tra le ciglia, vorrebbe ricacciarla indietro, ma non può. Le solca la guancia e poi scivola via, verso il nulla.
“Bisogna chiamare Eclecto, e Leto. Sono loro che devono avvertire il Senato. E il popolo” sussurra.
“E l’impero? – domanda Narcisso, guardando quel corpo steso a terra – Che ne sarà dell’impero?”
Marcia scuote la testa: “Non lo so. A questo punto proprio non lo so.”
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