Basandoci su questa narrazione, abbiamo introdotto nei nostri laboratori nuove esperienze tra cui il trucco etnico ispirato alle culture dei Masai africani, dei Pintupi australiani, degli Inuit dell’Artico, degli Yanomami e dei Matis dell’Amazzonia, solo per citarne alcune. Oppure attività basate sui miti di fondazione come la costruzione di una tenda a cono tipica delle culture nomadi boreali come i Sami della Lapponia, gli Tsataan della Mongolia e i nativi delle grandi pianure americane. Insomma tutte attività di scoperta dell’altro, di incontro con l’altro, ma anche, ovviamente, attività di supporto alla spiegazione delle culture preistoriche basata sull’osservazione etno-archeologica. Il tema principale del laboratorio è diventato così il confronto etnografico operato su più livelli: tra culture pre-protostoriche e la nostra cultura occidentale, e tra quest’ultima e le diverse altre culture tradizionali contemporanee.
Ovviamente siamo consapevoli che può risultare più difficile omettere del tutto la visione etnocentrica in laboratori, per esempio, di archeologia classica, perché può sembrare quasi naturale parlare degli antichi romani come del popolo da cui discendiamo, i nostri avi insomma. Invece non è scontato che chi abita oggi un territorio popolato in passato anche dagli antichi romani, ne sia necessariamente il discendente diretto. Inoltre, enfatizzare una discendenza diretta può risultare inopportuno quando in una classe ci sono bambini con famiglie provenienti da contesti geografici diversi da quello italiano. Tanto più che, come sappiamo, questa storia non è del tutto corretta, dato che la nostra penisola è stata ciclicamente penetrata da popolazioni del Nord Africa, del Nord Europa, dell’Est Europa, dell’Asia centrale, dai Greci e, ancor prima dei Greci, da numerose culture protostoriche dalle origini geografiche differenti.
Potremmo, al contrario, affermare che i Romani, anche se non sono precisamente i nostri antenati, sono sicuramente una popolazione che ha abitato il nostro stesso territorio influenzando molto le culture successive e lasciando tracce che sono tuttora visibili nelle nostre città, nel paesaggio e nella lingua (tra l’altro non solo in quella italiana). La differenza tra essere discendenti e abitare gli stessi luoghi non è trascurabile quando ci si rapporta con una scuola multiculturale. I bambini sono, infatti, pronti a seguirci nei nostri ragionamenti, e alle stesso tempo potrebbero mostrare una certa fragilità di fronte al dualismo culturale che li circonda: la cultura d’origine delle loro famiglie e la cultura predominante del paese che abitano. Motivo per cui molte famiglie straniere, come purtroppo abbiamo osservato, prendono la decisione di non trasmettere il bilinguismo ai propri figli.
Siamo di fronte a una generazione di bambini che sta crescendo in un mondo profondamente diverso da quello di appena qualche decennio fa: un mondo globale caratterizzato da continui movimenti migratori e da conflitti culturali ed economici costantemente in atto e la domanda ci appare lecita: di quale educazione al patrimonio hanno bisogno?
Affrontare la multiculturalità in un laboratorio archeologico significa, probabilmente, fare educazione al patrimonio e mediazione culturale insieme. La stessa Europa coniuga i due termini inserendoli nelle linee guida delle politiche educative adottate dal Consiglio d’Europa in tema di educazione (Council of Europe – Council for Cultural Cooperation – Recommendation R(98) of the Committee of Ministers to Member States concerning heritage education – 17 March 1998. E per l’Italia: D.M. 10 maggio 2001, Ambito VII; D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 119). In queste raccomandazioni si afferma, infatti, che i percorsi di riconoscimento del patrimonio culturale devono anche assumere un valore di mediazione culturale e di pari dignità nel rispetto di tutte le provenienze geografiche e di tutte le minoranze culturali.
Allo stesso tempo sentiamo parlare di Heritage Education come di uno strumento che ha tra i suoi scopi il rafforzamento del legame tra le comunità e il territorio, ma talvolta questo aspetto rischia di essere confuso con la necessità di rafforzare il sentimento identitario della comunità stessa. Nel nostro piccolo siamo convinti che i bambini non abbiano bisogno di forti identità etniche. In altre parole, un bambino figlio di rifugiati africani non ha bisogno di sapere che è arrivato in una terra dove sono sempre stati tutti bianchi e abili conquistatori di altre genti; analogamente una bambina di origine asiatica potrebbe avere idee diverse sull’importanza storica dell’Impero romano in confronto ai regni dell’antica Cina fioriti già circa mille anni prima di Augusto.
Stiamo generalizzando ancora, ma in effetti il rischio di un etnocentrismo spinto non ci sembra del tutto superato e, purtroppo, non sono superati neppure i rischi delle derive etniche sempre presenti nella società. Nel nostro caso è stato il punto di vista etno-archeologico che ci ha permesso di rileggere la preistoria, attualizzarla e mediarne culturalmente i contenuti identitari. Probabilmente in altri ambiti serviranno sforzi diversi, ma sicuramente il contributo etno-antropologico resta ugualmente fondamentale, così come porre al centro le culture e operare un confronto critico, senza pregiudizi di sorta, tra le società antiche, la cultura occidentale e le altre culture contemporanee.
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