«Gaio Licinio Calvo, Gaio Elvio Cinna e Gaio Valerio Catullo!» annunciò lo schiavo nomenclator.
Cicerone sussultò, ma cercò di non darlo a vedere. «Catullo?» bofonchiò, muovendosi nervosamente sul triclinio. «Chi l’ha invitato?».
Il suo vicino alzò le spalle. «Suo padre ha ospitato Cesare sulla via per le Gallie». Lo guardò in tralice. «Perché? Hai paura di finire in una delle sue liriche?».
«Quel neoteros mi fa più pena che paura» ribatté Cicerone, ma non era poi tanto tranquillo.
Studiò sospettoso i tre giovani che entravano allora nella sala, sorridenti e disinvolti. Catullo stava sussurrando qualcosa ai suoi amici. A Cicerone parve che guardassero nella sua direzione. Quando scoppiarono tutt’e tre a ridere, si voltò con un gesto di stizza, dedicando la sua attenzione ai mimi e alle danzatrici che si esibivano a beneficio dei commensali.
Cicerone si dimenò di nuovo sul triclinio, a disagio. Poteva ben comprendere il fascino di quella donna, per quanto la disprezzasse.
Mentre demoliva pubblicamente la sua reputazione, ne aveva approfittato per osservarla da vicino. Gli occhi di lei, neri e profondi come cantava Catullo, attiravano i suoi come una calamita. Per lo spazio di un istante aveva esitato, inciampando sulle sillabe – un errore da principiante, che non gli capitava più dai tempi della scuola. Le labbra di Clodia si erano incurvate appena, confermando la sua prima impressione: quella donna stava ridendo di lui.
Si era voltato di scatto, riprendendo la sua arringa.
«Chissà se hanno ripreso a frequentarsi, adesso che lui è tornato in città» insinuò il suo amico.
Cicerone aggiustò il peso sul gomito, irrequieto. Il frastuono nella sala, tra i flauti, le nacchere e il vocio dei commensali, sembrava crescere ogni momento di più.
«Marco Tullio!».
Il saluto formale, carico di ironia, lo fece sobbalzare. Alzò gli occhi su Catullo, che gli sorrideva attorniato dai suoi amici.
Si sollevò sul braccio per fronteggiarlo meglio. «Gaio Valerio» rispose a tono. «Sono lieto e sorpreso di vederti qui: so che hai dovuto affrontare un grave lutto familiare».
Il sorriso di Catullo si irrigidì appena. «Le notizie volano».
«Roma è Roma. La gente parla».
«Oh, senz’altro. Certa gente, poi, parla anche troppo». Catullo si accomodò accanto a lui, senza aspettare di essere invitato. «A proposito, complimenti per la tua ultima esibizione in tribunale! Mi dicono che hai salvato un’altra volta la città dalla depravazione e dalla rovina morale. Non mi aspettavo niente di meno da un Padre della Patria».
Calvo e Cinna ridacchiarono.
Cicerone sentì il sangue affluirgli al viso, ma si sforzò di rispondere in tono calmo: «Siamo tutti al servizio di Roma e degli dei».
«E delle nostre debolezze» completò Catullo. Alzò il calice perché uno schiavo glielo riempisse. «Non sono un politico né un retore, ma permettimi di dare il mio modesto contributo alla tua meritata gloria. Dunque, vediamo…». Si schiarì la gola e cominciò a recitare: «Marco Tullio, il più loquace tra i discendenti di Romolo, quanti sono, quanti furono e quanti saranno…».
Con orrore di Cicerone, molti dei loro vicini si erano zittiti per ascoltarlo. La voce del veronese si fece strada sopra i flauti e le percussioni: «Ti rende mille grazie Catullo, il peggiore poeta di tutti…».
“Almeno se ne rende conto”.
«… quanto tu sei il miglior avvocato di tutti».
Per un momento nessuno reagì. Anche i mimi si erano fermati. Poi i convitati scoppiarono a ridere come un sol uomo.
Cicerone era impietrito. Quel vigliacco si permetteva di ritorcere contro di lui le sue stesse frasi, scimmiottando una delle sue orazioni più riuscite! Girò lo sguardo furioso sui commensali, che sghignazzavano senza pudore, compreso l’amico che divideva il triclinio con lui. A quanto pareva, nessuno si era perso l’allusione al velato insulto amica omnium che lui stesso aveva coniato per Clodia.
Catullo ringraziò gli spettatori con un garbato cenno del capo e si fece versare altro vino.
Cicerone gli avrebbe volentieri sbattuto il calice sulla testa, ma lo scontro fisico non era mai stato il suo forte. Dardeggiò sulla sala uno sguardo fosco, carico di tutta la gravitas di un padre coscritto.
«Sei ancora giovane, Valerio, e ai giovani si perdonano l’impudenza e le scappatelle. Ma non dovresti esagerare». Aveva la bocca secca. Bevve a sua volta un sorso di vino, cercando di farlo passare per un gesto disinvolto. «A quanto mi dicono, la tua condotta privata non è sempre improntata al costume degli avi».
«Ah, dove finiremmo senza il mos maiorum?» concordò Catullo. Alzò il calice, lo inclinò e lasciò cadere qualche goccia di vino sul mosaico pavimentale. «Ai divini progenitori dell’Urbe, Marte e Venere, e alla loro esemplare condotta privata!».
La dedica suscitò un nuovo coro di risate.
Cicerone avvampò per l’indignazione e si alzò in piedi. «Gaio Valerio!» tuonò. «Ti conosciamo tutti per un perdigiorno scapestrato e irriverente, ma adesso stai davvero oltrepassando il limite. Quale rappresentante del Senato di Roma, non ti permetterò di bestemmiare gli dei!».
«Chi sta bestemmiando? Ho appena reso onore ai nostri numi tutelari». Catullo mangiò una noce, senza smettere di sorridere. «La libagione rientra tra i costumi degli avi, no?».
«Ti dirò io cosa non rientra tra i costumi degli avi, razza di degenerato: sperperare il patrimonio familiare in feste e banchetti, impiegare il proprio misero talento per comporre carmi lussuriosi e, non ultimo, disdegnare il tribunale e il campo di addestramento per frequentare intimamente la vedova di un console!».
Calò un silenzio di gelo, ma Catullo non sembrava affatto offeso. «Li leggi, quindi».
«Cosa…?».
«I miei “carmi lussuriosi”». Il suo sorriso somigliava sempre più a un ghigno. «Non ti facevo il tipo».
«Come ti permetti? Io…».
«Studi anche i filosofi greci, o sbaglio?».
«E con questo?».
«Beh, non dovresti lasciarti dominare dalle passioni. Sei un senatore di rango consolare, non un “perdigiorno” come me e i miei amici». Si mise in bocca un’oliva e parlò a bocca piena. «Non vedo perché la mia vita privata t’interessi tanto».
«Gli uomini come te stanno portando alla rovina questa città!».
Catullo alzò le sopracciglia. «Credevo fossero gli uomini come Catilina, o Cesare, o Mamurra. O Clodio». Gli lanciò un’occhiata di sbieco. «Cosa ti ha fatto sua sorella per meritarsi tanto odio? Oltre a uscire con me, ovviamente».
«Le donne del suo stampo sono la peste morale della società» rispose Cicerone a denti stretti.
Catullo lo studiò pensieroso, poi annuì. «Non avvelenare i beni presenti con l’assillo di quelli che ti mancano» citò in tono leggero.
Ci fu un momento di silenzio, seguito da un boato di risate.
Cicerone rimase immobile, i pugni stretti lungo i fianchi. Poi si girò bruscamente, rivolse un secco cenno di congedo al padrone di casa e uscì dalla sala come una furia, con le falde della veste che svolazzavano alle sue spalle.
Catullo continuò ad assaggiare le prelibatezze della gustatio, senza dare troppo peso ai convitati che gli battevano sulle spalle o lo rimproveravano per la sua sfacciataggine. Stava rifinendo a mente il suo nuovo componimento, dedicato a un eroe della Roma moderna: l’augusto senatore e Pater Patriae Marco Tullio Cicerone.
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