E non chiamatele Amazzoni! I pregiudizi di genere nella ricerca archeologica

17 Dicembre 2019
Sono state donne forti, sovrane o guerriere, sepolte alla morte con scettri e armi. Ma chi le ha scoperte le ha scambiate per uomini, o per esseri speciali come le amazzoni. È tempo che gli archeologi riconsiderino i propri pregiudizi di genere

Nel 1878 nella località svedese di Birka, non lontano da un presidio militare vichingo, venne scoperta una tomba del X secolo con un ricco corredo d’armi. Fu naturale, allora, interpretarla come sepoltura di un nobile guerriero. E invece le analisi genomiche effettuate sui resti ossei nel 2017, hanno rivelato che quel corpo apparteneva a una donna.

Pregiudizi di genere

Eppure, nonostante la prova della scienza, molti archeologi hanno trovato difficoltà ad accettare l’idea che si trattasse di una guerriera. E l’archeologa Charlotte Hedenstierna-Jonson dell’Università di Uppsala, che ha partecipato al nuovo studio, si è chiesta perché sia così difficile liberarsi dall’idea che un corredo d’armi possa anche non appartenere a un uomo.

Ma non è questo il solo caso recente in cui i nostri schemi mentali sessisti hanno condizionato l’interpretazione di sepolture antiche. Quest’estate gli archeologi dell’università russa di Irkutsk hanno scoperto a Khövsgöl, in Mongolia del nord, due tombe mongole del XIII secolo con un ricco corredo d’armi: coltello in ferro, ascia da guerra e sella con staffe. Uno dei due corpi è anche alto di statura, ben 1,80 metri. Ma a differenza di quanto avvenuto a Birka, la conformazione delle ossa pelviche e delle mascelle hanno subito fatto sorgere il sospetto che entrambi i corpi appartenessero a donne. E le successive analisi del DNA lo hanno confermato.

Non sono Amazzoni!

Tuttavia, quando Artur Kharinsky, capo della spedizione archeologica, ha comunicato alla stampa la scoperta, ha utilizzato l’espressione ‘amazzone mongola’, quasi per giustificare quella ‘stranezza’ così lontana dal nostro immaginario.

L’amazzone è una figura della mitologia greca, simbolo del sovvertimento dell’ordine naturale delle cose e dei ruoli di genere prestabiliti per uomo e donna: l’uno combattente e l’altra relegata tra le mura domestiche. Una donna in grado di competere in armi con gli uomini può essere solo materia di mito o una dea, come per esempio Atena. E i pregiudizi degli archeologi moderni che giungono a condizionare l’interpretazione dei dati di scavo, sono un esempio di quanto tale schema mentale sopravviva ancora oggi.

Donne di potere

Tra l’altro, i pregiudizi non riguardano solo le donne guerriere ma anche le donne di potere. Nel 2013 a Tarquinia, nella Necropoli della Doganaccia, è venuta alla luce una tomba etrusca del VII secolo a.C., inviolata e perfettamente integra, con all’interno due corpi: la cosiddetta tomba dell’Aryballos sospeso. Di fronte a un ricco corredo e alla presenza di una punta di lancia accanto a uno dei due corpi, l’equipe diretta da Alessandro Mandolesi dell’Università di Torino non ha avuto dubbi: la lancia identificava un principe etrusco, e di conseguenza i resti parzialmente combusti del secondo occupante della tomba, dovevano appartenere alla sua consorte.

Pregiudizi di genere

Pregiudizi di genere. La tomba dell’Aryballos sospeso di Tarquinia: donna con punta di lancia accanto a sé a sx e uomo parzialmente incinerato a dx – foto Alessandro Mandolesi

Ma le analisi osteologiche hanno costretto gli archeologi a cambiare idea: il corpo con la punta di lancia accanto, appartiene a una donna di 35-40 anni, mentre quello parzialmente incinerato è di un uomo, forse il consorte della ‘principessa’, a questo punto.

Anche in questo caso, nonostante l’evidenza, si è molto discusso sull’identità dei defunti. Per Mandolesi la punta di lancia è stata deposta accanto alla donna come simbolo della sua forte unione con l’uomo sepolto con lei. Mentre Judith Weingarten, allieva della British School at Athens, ha rilanciato con forza l’ipotesi che la lancia appartenga proprio alla principessa e sia il simbolo del suo potere e del suo alto status sociale.

Gli errori sono tanti

Uno studio del 2013 condotto da Laurynas Kurila dell’Università di Vilnius su diversi siti sepolcrali lituani, in un arco di tempo che va dal III al XII sec d.C., ha evidenziato quanto sia insidioso associare automaticamente un corredo d’armi, e perciò ‘di tipo maschile’, con il sesso maschile del defunto, e uno di gioielli e unguentari, ‘di tipo femminile’, con una donna. Nel campione analizzato, infatti, sesso biologico (indagato con analisi osteologica) e corredo corrispondevano solo nel 69% dei casi.

Tuttavia, se gli individui identificati osteologicamente come femmine avevano in circa l’85% dei casi oggetti ‘femminili’ nel corredo, tale percentuale scendeva al 52,5% nel caso degli individui biologicamente uomini. Nei casi di discrepanza tra corredo e sesso, quando i resti risultavano femminili, gli oggetti presenti erano armi come asce o punte di lancia, cioè oggetti attribuiti generalmente al genere maschile; invece nei casi di non corrispondenza che coinvolgevano resti maschili, il corredo era costituito da oggetti frammentari e mediamente meno ‘genderizzati’ come ornamenti di abito o falcetti. Solo in pochissimi casi i resti maschili erano accompagnati da ricchi corredi tipicamente ‘femminili’.

Liberarsi dai pregiudizi

Tutto ciò ci fa capire quanto sia insidiosa la prassi, diffusissima in archeologia, di dedurre il sesso del defunto dalla tipologia degli oggetti del corredo. È chiaramente necessario cambiare approccio metodologico, soprattutto in quei contesti tombali in cui i resti ossei non risultino ben conservati. La scienza può dare un forte contributo nell’evitare errori di attribuzione di genere a resti scheletrici, e può anche correggere misinterpretazioni del passato. Ma ciò presuppone che a monte avvenga qualcosa di ben più difficile e complesso di un’analisi osteologica o genomica: qualcuno si deve porre il problema.

Già nel 1984 Margaret W. Conkey e Janet D. Spector nell’articolo Archaeology and the Study of Gender invitavano la comunità archeologica a prendere consapevolezza dei propri bias cognitivi e a liberarsene per evitare di imporre le categorie mentali moderne sui ruoli di genere alle società e culture del passato. A più di trent’anni di distanza da allora, sarebbe giunto il momento di far tesoro di quei suggerimenti per rendere giustizia a tutte quelle principesse e guerriere che ancora attendono di essere conosciute e riconosciute.

Autore

  • Nataly Pizzingrilli

    Specializzanda in Archeologia all’Università Statale di Milano con uno spiccato interesse per la comunicazione storica e archeologica, in un’epoca in cui multiculturalismo e globalizzazione lanciano sempre nuove sfide a trovare le giuste modalità per narrare l’altro-da-sé. Gestisce la pagina Facebook ‘Italia Unita per la Storia’ e nel tempo libero si divide tra opere di attivismo sociale e assidua visione di serie TV.

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4 Commenti

  1. Gianfranco

    Sarebbe tempo, anche, di riprendere in mano l’uso del dire “homo” quando si parla di genere. Perché non inventare al posto di “homo” un termine che comprenda anche la parte femminile dei bipedi “umani” (ancora homo, eh!).
    Ci sembra naturale usare tutta la terminologia “i primi uomini…” e le donne ? mi sembra impossibile che ci siano solo “homo” qualche milione d’anni fa, senza le femmine …. nessuna nascita !!! Quindi perché non cominciare a mettere insieme i due generi.
    Genere umano : che é proprio degli uomini, ancora e sempre “homo, homine” e “femminam” ?

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    • cinzia.admin

      Caro Gianfranco hai assolutamente ragione: dobbiamo ripensare tutto il nostro lessico. Anche noi donne cediamo spesso alla consuetudine cadendo nei tranelli. Non basta dire architetta o ministra, sono molte di più le parole da ripensare. lo faremo. Grazie

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  2. Domenico

    Credo sfugga a Gianfranco che il termine latino “homo” si riferisce all’essere umano senza differenza di sesso, come p.es. il tedesco “Mensch”, per riferirsi all’essere umano di sesso maschile si usava invece “vir”, corrispondente p.es. al tedesco “Mann”.

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