Luce sul nuovo Museo Salinas di Palermo

22 Agosto 2016
Spazi recuperati, un allestimento museograficamente moderno e tanta luce: questo è il nuovo Museo Salinas di Palermo riaperto dopo quattro anni di lavori.
 Niente forbici su cuscini di velluto, pronte ad aggredire il fatidico nastro. Niente fasce tricolore, presidenti del Consiglio o della Regione, contestazioni alla porta e fanfare di promesse all’interno. No, niente di tutto questo la sera del 27 luglio scorso a Palermo, per la riapertura ufficiale del Museo archeologico Salinas.
Perciò in questa primavera-estate all’insegna della vernice per alcuni fra i più importanti musei archeologici italiani, questa si lascia raccontare come un’archeostoria del cuore e, così, permettete che ve la racconti.
Comincio dall’ emozione del varcare la soglia, mentre un semplice servizio d’ordine lasciava entrare gli ospiti: famiglie con bambini, signore e signori azzimati, ragazzi in shorts e maglietta. E sorrisi. Il chiostro minore dell’antica casa dei padri Filippini che si riempiva sempre più della colorata allegria e dell’attesa festosa della community del Salinas.

Lo aspettavano in tanti, il nuovo museo. Alcuni al varco, di posta per sparare a zero – of course – su restauri e scelte espositive. Ma i più con sincero interesse, animato dalla vitale e incisiva attività digitale che negli ultimi anni gli ha regalato una moderna identità comunicativa. Così molti avevano iniziato a familiarizzare a distanza col museo, e poi a entrarci poco a poco grazie a un fitto calendario di seminari, convegni, incontri, e soprattutto mostre temporanee. Un “piccolo mondo” fatto di quattro salette – le uniche accessibili – in cui si è cercato di proporre una conoscenza diversa e più approfondita di quella parte delle collezioni che l’allestimento tradizionale difficilmente riesce a valorizzare. E si sono fatti numeri di visitatori a cinque zeri, più di 51.000 nel solo 2015. Ormai, però, tutti aspettavano il “grande ritorno”. Un ritorno ancora parziale perché è stato riaperto solo il piano terra, ma è lì che si mostra la parte più significativa e nota delle collezioni storiche. Per il resto si dovrà attendere ancora, sperando che non siano lettera morta le parole dell’assessore regionale ai Beni culturali Carlo Vermiglio, che ha assicurato che i fondi necessari per l’allestimento saranno reperiti da un piano di opere finanziato dal governo nazionale, il “Patto per la Sicilia”. Perciò teniamo gli occhi bene aperti su come andrà a finire questa storia.

ll lungo lavoro di restauro e il riscatto dall’oblio

Ma torniamo indietro al 2009 quando, dopo lunga attesa e sofferti tentennamenti, iniziarono i lavori di restauro del Salinas. Un restauro pensato non solo per dotare di spazi e servizi espositivi idonei un museo dalle strutture ormai obsolete, ma anche per ridare splendore a un edificio di grande bellezza: un complesso monumentale formatosi in più di quattro secoli, dai deliziosi chiostri e chicche architettoniche aggiunte col tempo.
Con 11,5 milioni di euro da spendere, reperiti da fondi vari, non si è fatto un lavoro da “archistar” che non sarebbe neppure servito. Servivano innanzitutto il consolidamento statico delle strutture, il rifacimento degli impianti (cui si è aggiunto di recente quello salvifico di condizionamento), e interventi architettonici che hanno fatto guadagnare circa 900 mq di spazio espositivo e hanno portato il Salinas a un totale di 5.130 mq. Di questo si è fatto carico l’architetto Stefano Biondo che ora si trasformerà in un bersaglio per le freccette dei suoi colleghi più acuti ma che, da funzionario pubblico, ha dovuto “fare il fuoco con la legna che si ha”.La chiusura per lavori del museo, dapprima progressiva, divenne totale nel 2011. Fra i sospiri di pochi nostalgici, la frustrazione degli studiosi e la delusione dei turisti lasciati fuori dal portone, lo avevamo visto sparire dietro le impalcature, con l’idea di poterlo rivedere chissà quando. Da allora il Museo Salinas era diventato un pezzo della storia di Palermo e della Sicilia che la città aveva dimenticato, sepolto nella polvere dei lavori e, prima ancora, in quella del suo torpore. Perduto lì, in mezzo al traffico e assediato dalla movida, gli avevano messo intorno transenne che erano la metafora di ciò che avrebbe potuto segregarlo per sempre: un’idea autoreferenziale di servizio pubblico, schermo alla debolezza nella conduzione, e la latitanza di un indirizzo di progetto. Perché anche un museo chiuso – soprattutto un museo chiuso, se è uno dei più ricchi musei archeologici d’Italia – ha bisogno di una leadership forte. Grazie al cielo, alla fine l’ha trovata.
Il volto del riscatto, Francesca Spatafora, è archeologa esperta e direttore deciso e tenace. Ha guidato le battaglie e le scelte degli ultimi tre anni ma ama ricordare come il combattuto successo dell’apertura sia in realtà il frutto del lavoro – alla luce o nell’ombra – di tanti. Così duemila persone hanno voluto festeggiare con lei: entrate tutti, il Salinas è aperto!

Un museo accogliente e vivo che racconta le sue molte anime con una nuova strategia espositiva

Chi entra oggi per la prima volta trova certamente, prima che un museo, un luogo monumentale dalla bellezza accogliente. Il chiostro minore, che già da qualche tempo si lasciava scorgere dietro l’austera facciata di piazza Olivella, è ora l’interfaccia accattivante del Salinas, col suo punto-info multimediale e i servizi per il pubblico affacciati sul bel porticato.

Chi invece conosce già edificio e museo, rimane subito colpito dal rinnovato allestimento, curato da un comitato scientifico di tutto rispetto. I reperti archeologici conservati dal Salinas sono straordinari, talvolta di un’importanza senza pari, ma il vecchio museo era ormai un caotico assortimento di antichità diverse, di stampo prettamente ottocentesco. Ora invece è un luogo che racconta le sue molte anime, quella della ricerca archeologica ma anche quella delle “collezioni” e delle acquisizioni fatte nei secoli scorsi. E ci riesce, perché dagli spazi aperti sui giardini e le corti, dal gioco fra interno ed esterno delle nuove salette affacciate al porticato grande, si ha l’impressione di un ambiente più “legato”, di un museo che ha trovato il proprio filo di Arianna.

Da un lato, ha assolto pienamente al non facile compito di presentare i nuclei intorno ai quali la più antica istituzione museale di Sicilia è nata e si è accresciuta, e che hanno una composizione che è essa stessa una storia da narrare, come quella grazie alla quale il museo di Palermo venne in possesso perfino di un frammento del fregio orientale del Partenone.
Dall’altro, ha colto appieno l’opportunità di presentare finalmente i reperti provenienti da scavo nei loro contesti archeologici, restituendo, con una ricchezza di elementi che non teme confronti, uno sguardo dall’interno della vita, della morte, dei culti, in una parola della storia della più occidentale delle città greche di Sicilia, Selinunte. E proprio questa sezione, grazie alle opzioni museografiche adottate, ha consentito di esporre per la prima volta molti reperti, ben il 30% in più rispetto a prima. Sono scelte espositive che forse non seguono la vague oggi dominante, ma noblesse oblige: quando le cose si hanno non si possono tenere nascoste. Così, le affollate vetrine delle sale dedicate al santuario di Demetra Malophoros, con le centinaia di votivi, sfidano l’horror vacui. Però la realtà dell’antico culto era questa: l’intero ciclo dell’esistenza vi si specchiava non meno di quanto accada oggi intorno al santuario del Divino Amore.La disposizione che racconta questa duplice anima si sviluppa attorno ai due splendidi chiostri. Lungo il portico di quello Maggiore ritornano all’antica collocazione, ma con nuovo splendore dopo i restauri, opere ben note come le grandi statue romane, fra cui quella colossale di Zeus da Solunto, mentre le celle della corsia settentrionale, dalle quali si sono ricavati nuovi spazi espositivi, ospitano non più solo i preziosi reperti fenici ma anche quelli provenienti dagli scavi promossi nell’Ottocento dalla Commissione di antichità e belle arti (da Centuripe, Randazzo e le splendide oreficerie da Tindari), alcuni dei quali mai esposti prima. E qui trova un senso anche la ceramica attica figurata dalla necropoli di Agrigento, che offre anche sculture architettoniche e materiali votivi dai suoi santuari.Punto d’incontro fra le due dimensioni, e le rispettive espressioni museali, è la straordinaria sezione selinuntina.
Le sculture e le decorazioni architettoniche dei grandi templi, hanno una soluzione espositiva che è parte della storia del museo: uno di quei luoghi dell’anima in cui generazioni di archeologi hanno incontrato la storia dell’arte antica. Ora si è provato, però, a restituire anche una dimensione dinamica dell’architettura di questa città greca, famosa per la magnificenza delle sue costruzioni. E lungo un percorso che dallo splendore dei luoghi di culto porta alla tragedia della città e alla sua sopravvivenza, si ritrova (finalmente!) una linea unitaria di presentazione anche per l’importantissima sezione dell’epigrafia funeraria, le cui iscrizioni non solo sono esposte in maniera fruibile e coerente, ma anche messe in collegamento diretto con le sepolture e i corredi funebri provenienti dalle ricche necropoli cittadine.Le superstar, però, sono sempre loro, le metope, il più importante complesso dell’arte greca d’Occidente che da oltre centocinquant’anni domina la grande sala che fu refettorio dei padri Filippini. Il nuovo allestimento non poteva non rispettare  la collocazione storica (con qualche concessione al comfort, grazie al cielo!), ma ha attenuato l’impressione di vuoto che le circondava, arricchendo gli spazi con nuovi frammenti scultorei e una consistente selezione di terrecotte architettoniche dalla vivace policromia originaria, nonché dedicando finalmente uno spazio anche alle “Piccole metope”.
E solo alla fine del percorso arriva il coup de theatre, il terzo cortile intorno a cui ruotano le otto sale selinuntine, trasformato in una sorta di nuova agorà da una copertura in vetro che – entro l’anno, assicurano – esibirà scenograficamente i pezzi architettonici in pietra e in terracotta che ornavano i più fastosi templi di Himera e di Selinunte.Una novità importante appartiene alla dimensione comunicativa dell’esposizione. È stato fatto un piccolo passo avanti su cui ancora c’è da lavorare, ma va salutato con attenzione perché marca un giro di boa davvero significativo: la semplificazione delle didascalie!
Le didascalie – lingua principale con cui i musei parlano ai visitatori – sono da sempre un trappolone che rivela infallibilmente quel che i curatori museali, e gli archeologi in primis, pensano di sé e del ruolo culturale e sociale che si attribuiscono. Già nel 2005 il Ministero dei beni culturali ha diramato direttive chiare in proposito. Bene, allora, che il nuovo Salinas abbia cercato semplificazione e inclusione nelle didascalie correnti, forse un po’ meno in alcuni pannelli illustrativi “d’autore”. Ci auguriamo che l’impressione venga confermata quando l’apparato illustrativo per i visitatori sarà completo di tutte le funzioni previste.

È comunque la rotta verso cui si naviga, e sembrano dimostrarlo anche le strategie espositive. Un esempio? La saletta in cui, per la presentazione della famosa Pietra di Palermo, un’iscrizione egizia straordinaria donata al Museo nel 1877 da un collezionista palermitano, si è scelto di narrare, attraverso alcuni reperti del museo, la storia della scrittura epigrafica in varie lingue antiche. Così la splendida iscrizione, che contiene la cronaca di circa settecento anni dell’Antico regno egizio (3100-2300 a.C.), smette di essere un pezzo d’antiquariato e diventa un tassello nella storia di quella meravigliosa invenzione che fu la scrittura. E ha un senso che le stiano accanto, per la prima volta esposti insieme – speriamo non solo occasionalmente – anche tre degli otto decreti di Entella, celebri iscrizioni greche su tavolette di bronzo sottratte al traffico internazionale di reperti archeologici negli anni Settanta del secolo scorso.

Nuovo Museo Salinas: il ritorno alla luce

Chi conosceva il vecchio Salinas ricorderà quella certa angoscia da discesa agli inferi che trasmettevano le sale principali. Dopo un ultimo sguardo, entrando, al magnetico occhio della Gorgone che spiccava sul fondo rosso cupo, e percorrendo poi meandri grigi in cui fiorivano qua e là le enigmatiche piccole stele a due teste accanto a oscure iscrizioni, si arrivava alla fredda vastità della sala delle grandi metope selinuntine e alla penombra della collezione etrusca Casuccini. Niente di più diverso da quel che avverrà nell’ala orientale dell’edificio quando l’affaccio sul terzo cortile inonderà le sale di luce. Luce che del resto rende già luminosi e aperti, ariosi ambienti affacciati sul giardino del chiostro grande, gli antichi bui magazzini.
Anche la bellezza di questa luce naturale, variabile nelle diverse ore del giorno e nelle stagioni, dà un’impressione di vitalità diversa al nuovo Salinas. Forse non sarà l’opzione museografica più di grido ma in fondo, come dice Qoelet, “…dolce è la luce ed è bello per gli occhi vedere il sole” (11, 7).

 

Autore

  • Flavia Frisone

    Accademica, ma del dissenso, ama fare history-telling. Professore di Storia di greca all’Università del Salento e di Esegesi delle fonti epigrafiche presso la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici ​“Dinu Adamesteanu” di Lecce​

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