Una scomoda verità 2 e l’opportunità per gli archeologi di mettere in contatto due mondi

10 Ottobre 2017
Ho avuto la fortuna di assistere all’anteprima del film Una scomoda verità 2, il seguito – se proprio di seguito si può parlare – del documentario con protagonista Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America nell’amministrazione Clinton. Entrambi i documentari affrontano il tema dei cambiamenti climatici causati dal riscaldamento globale. La nuova pellicola esce […]

Ho avuto la fortuna di assistere all’anteprima del film Una scomoda verità 2, il seguito – se proprio di seguito si può parlare – del documentario con protagonista Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America nell’amministrazione Clinton. Entrambi i documentari affrontano il tema dei cambiamenti climatici causati dal riscaldamento globale. La nuova pellicola esce a dieci anni di distanza dalla prima che vinse due Oscar e valse a Gore il Nobel per la pace, e sarà nelle sale di tutta Italia solo il 31 ottobre e l’1 novembre.

La proiezione dell’anteprima si è svolta a Milano, all’auditorium San Fedele, seguita da un dibattito sul tema, cui hanno partecipato il climatologo Luca Mercalli e il diplomatico e scrittore Grammenos Mastrojeni, autore tra l’altro del libro “Effetto serra, effetto guerra”.

Diciamo subito perché a un archeologo potrebbe interessare Una scomoda verità 2

Anche se nel film non vengono citati, sappiamo benissimo che i siti e i beni culturali a rischio “estinzione” a causa del clima che cambia sono veramente tantissimi. E non si parla solo di grandi siti: nella sola città di Roma, per esempio, sarebbero 28.000 i beni che rischiano di essere distrutti in caso di alluvione.

In realtà, la questione climatica interessa agli archeologi più di quanto crediamo: anche le guerre attuali – quella in Siria, per esempio – che hanno provocato, oltre a migliaia di morti, anche la devastazione di siti archeologici importantissimi per opera di Daesh (uno su tutti: Palmira), hanno spesso avuto un innesco causato da problemi ambientali. Mastrojeni ha per esempio ricordato che in Siria, prima dello scoppio del conflitto, si è verificata una grave carestia provocata dalla siccità.

Una scomoda verità 2: cosa dice il film, in poche parole

Come nel primo documentario, obiettivo di Al Gore è diffondere consapevolezza sui rischi provocati dall’eccessivo utilizzo di energia da fonti fossili. Per questo le riprese riguardano da un lato l’attività di sensibilizzazione e divulgazione svolta dall’ex politico durante quelle che lui chiama le sue “sessioni di formazione”, svolte in seno al The climate reality project, e dall’altro eventi climatici estremi e disastri. Si vede il memoriale di Ground zero, il sito in cui si ergevano le Torri gemelle abbattute l’11 settembre 2001 da un attacco terroristico di Al Qaeda, sommerso dall’acqua; il ghiaccio polare che si scioglie e si riversa nell’oceano; il centro della città di Pechino coperto da una cappa di smog perenne a causa dell’intensa attività industriale; terreni agricoli devastati dalla desertificazione che avanza nelle aree del pianeta da cui oggi proviene la maggioranza dei migranti. E molto altro ancora.

Rispetto al primo docufilm c’è sostanzialmente una sola novità: è l’Accordo di Parigi  sottoscritto da 195 Paesi nel 2015 (da cui gli USA sono usciti non appena si è insediato Donald Trump alla Casa Bianca…), che prevederebbe di far sì che l’aumento di temperatura globale, entro questo secolo, non superi i 2 gradi rispetto all’epoca preindustriale, oltre a dare sostegno ai Paesi in via di sviluppo con investimenti nelle energie rinnovabili.

Proprio le energie rinnovabili sarebbero, secondo Al Gore, la chiave per raggiungere gli obiettivi di “emissioni zero” – intese come emissioni di gas serra che alterano il clima – previsti dal documento.

Il film, oltre a proporre una soluzione – le rinnovabili, appunto – lascia aperta una grandissima domanda: “Perché, con tutto quello che sappiamo, con tutto quello che ci dicono gli scienziati, non agiamo? Perché stiamo facendo così poco?

Un problema di comunicazione

Il grande problema – di sempre, e non solo di oggi – è quello di convincere le singole persone, che poi votano i politici che formano i governi che alla fine prendono decisioni per tutti, a compiere azioni che riducano effettivamente il proprio impatto sul pianeta. Se queste persone non sono convinte e non sono consapevoli, se non capiscono perché dovrebbero cambiare fornitore di energia, o mangiare biologico, o preferire la bici al posto dell’auto, o differenziare correttamente i rifiuti, automaticamente non lo saranno nemmeno i governi da loro votati.

In più, ricordava Mercalli al dibattito, in modo forse un po’ troppo pessimistico, ogni buona azione verrebbe inficiata da un sistema economico che pretende una crescita infinita in un sistema finito (la Terra). Un controsenso che indebolisce gli sforzi di quella parte di umanità che cerca realmente di ridurre il proprio impatto ambientale nel tentativo di arginare il pericolo.

Ma come si risolve il problema della comunicazione? Come si spiega alle persone che non compiere azioni ecocompatibili nella propria quotidianità equivale a far avverare gli scenari peggiori previsti dagli scienziati del Gruppo intergovernativo che studia il cambiamento climatico (IPCC)? Come si racconta che, se l’aumento della temperatura globale dovesse raggiungere i 6 gradi, si avranno effetti sconosciuti ma sicuramente devastanti? E infine: come far sì che le persone prendano davvero a cuore il problema? Che si interessino del destino incerto di 9 miliardi di individui (tanti saremo a fine secolo)?

Ambientalismo: serve un aiuto

In Italia il mondo dell’ambientalismo ha convinto – in anni di battaglie e soprattutto grazie alla spinta di Expo 2015, la manifestazione che si è svolta a Milano due anni fa e che era dedicata all’alimentazione sostenibile – poco meno di un terzo della popolazione. Secondo l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile 2017, realizzato da LifeGate (portale di riferimento della sostenibilità in Italia) in collaborazione con Eumetra Monterosa, istituto di ricerca sociale, economica e di opinione, gli appassionati di ambiente in Italia – quelli cioè che si impegnano concretamente per avere uno stile di vita davvero sostenibile – sarebbero infatti il 29 per cento.
Come si convince dunque l’altro 71 per cento?

Archeologia e storia: un’opportunità da cogliere

Archeologi e storici, attraverso un sapiente racconto (o “storytelling”) del passato possono provare ad avvicinare le persone a questi temi, diffondendo, oltre alla consapevolezza culturale, anche quella ambientale. I due aspetti, infatti, vanno di pari passo. Per tre motivi.

Dare valore al passato vuol dire dare valore al futuro

Perché per prendere a cuore il futuro e dunque decidere di agire di conseguenza, bisogna prima dare valore al passato, un valore che non sia solo meramente intellettuale, ma soprattutto emotivo, affettivo, personale. Bisogna creare un legame con le cose e i luoghi. L’archeologia pubblica, per esempio, facilita questo processo coinvolgendo i cittadini, che in questo modo sono più attivi e consapevoli.

Istituire confronti

Perché gli archeologi posseggono i dati per ricordare alle persone che si sono già verificati disastri ambientali che hanno causato la fine di alcune civiltà. Ce lo ha raccontato bene Jared Diamond, ricercatore statunitense, nel libro Collasso, pubblicato nel 2004, facendo tra gli altri anche l’esempio di Rapa Nui, l’Isola di Pasqua, devastata dal disboscamento selvaggio della foresta. Raccontare alle persone quali errori non commettere in base a dati certi è allora fondamentale, costituisce un confronto.

Raccontare la società attraverso i materiali

Perché la storia e l’archeologia hanno una visione di lungo periodo, complessiva, generale dei processi economici e sociali. L’archeologia soprattutto, studiando i reperti materiali – per esempio le ceramiche – ne ricostruisce la provenienza, la funzione. Raccontando la storia di un vaso possiamo risalire alle rotte migratorie di una popolazione; la storia di un’anfora ci parla di abbondanza o carenza di risorse, di problemi di approvvigionamento, perfino di guerre per il controllo di territori.

I materiali raccontano un mondo, ieri, come oggi. Un piatto di ceramica a vernice nera di II secolo a.C. ha la stessa funzione di uno di plastica usa e getta prodotto oggi, ma racconta una storia economica e sociale diversa. E quelle due storie in parallelo, se raccontate (bene), possono dirci l’una dove siamo andati e l’altra dove stiamo andando. E possono farci decidere di prendere un’altra strada, forse.

Info pratiche

La pellicola sarà nelle sale solo nei giorni del 31 ottobre e del 1 novembre. Per conoscere i cinema che proietteranno il film e acquistare i biglietti, basta andare sul sito dedicato all’evento.
L’hashtag di riferimento per condividere pensieri e opinioni sulla pellicola è #UnaScomodaVerità2

Autore

  • Chiara Boracchi

    Archeo-giornalista e ambientalista convinta, vede il recupero della memoria e la tutela del paesaggio e del territorio come due facce complementari di una stessa medaglia. Scrive per raccontare quello che ama e in cui crede. Per Archeostorie, coordina la sezione Archeologia & Ambiente ed è responsabile degli audio progetti. Nel tempo libero (esiste?) scatta foto, legge e pratica Aikido.

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