I Longobardi, tutta un’altra storia

23 Febbraio 2016
Chi furono davvero i Longobardi? I barbari nemici del papa e di Carlo Magno, o i veri inventori della cultura europea? Dal racconto di Galatea, una visione di grande attualità
Paolo. Paolo Diacono.
Se c’è un nome che da solo riesce a condensare la parabola dei Longobardi, è il suo. E non solo perché fu il meraviglioso e tragico cantore della loro stirpe. No. È che proprio già nel nome, e poi nella sua vita, si riassume tutto ciò che i Longobardi sono stati, e forse anche quel che avrebbero potuto essere.
Paolo, figlio di Warnefrit e di Teodolinda, nipote di Lopichis, di Cividale del Friuli.
Bisogna partire da qui, da questo figliolo di una nobile famiglia barbara che viene battezzato cattolico e con un nome romano, per capire la forma mentis di un popolo così sfuggente nel nostro immaginario, che ancora adesso tendiamo a considerarlo una parentesi, un incidente di percorso. E invece…
Ma torniamo a Paolo. Quando nasce, Cividale è nel pieno del suo fulgore. Il duca Rachis sta per diventare re dei Longobardi.
Ha sposato una nobildonna romana, Tassia, che sarà la prima sovrana non barbara dalla caduta dell’impero. Di lei poco sappiamo, ma fatto sta che il marito adotta a corte usi romaneggianti: si fa chiamare princeps e scrive i suoi documenti in un latino letterario che non ha più nulla di barbarico.
Cividale è un gioiellino: è longobarda, perché ai tempi dei Romani non era poi chissà che, ma è città, perché i Longobardi sono oramai un popolo decisamente urbano.
Hanno una corte, e se nel duomo l’altare di Rachis è ancora vicino agli stilemi barbarici, il tempietto del palazzo, dove la corte va a pregare, è così squisitamente classico nelle forme e nei decori, che per lunghi secoli si è creduto che non potessero averlo fatto loro. I Longobardi, intendo.
Qui a Cividale si forma il nostro Paolo, “ornamento definitivo della sua stirpe”, come dirà un suo allievo nell’epitaffio che gli dedica. Infatti è uomo di cultura profondamente imbevuto di letteratura classica.
Al punto che il suo, in tanti secoli, resterà uno dei più bei latini del Medioevo, e come scrittore può tranquillamente tenere testa a un Livio. Ma riesce in questo perché dentro, di animo, è proprio longobardo longobardo. Se nella sua Historia Langobardorum ritrae bene il suo popolo, con tutte le contraddizioni, è perché quelle contraddizioni sono anche sue. È orgoglioso e testardo, e non disdegna di essere spiccio quando serve. Persino brutale.
Se Tacito aveva elogiato gli antichi Germani perché vi aveva riconosciuto gli echi dei Romani antichi, i Longobardi li avrebbe amati, perché erano proprio così: barbari, i più barbari di tutti.
Un’orda di bande armate, di carri e di famiglie che piovono giù dal nord freddo e inospitale come una punizione divina, dopo che Goti e Bizantini si sono scannati tra loro per decenni.
Li chiamano forse proprio i Bizantini, ma la prima immagine che ne dà Paolo ci fa capire molto di loro. È la scena in cui il loro re, Alboino, sale su un monte ai confini con l’Italia (forse il Pelsa) e guarda con occhio bramoso la terra che sta per conquistare.
La terra. Per i Longobardi è un’ossessione. Hanno vagato per generazioni senza trovare pace, e ora finalmente ce l’hanno lì, a portata di mano: una terra ricca dove stanziarsi e mettere radici.
Non sono in transito: cercano un luogo da possedere finalmente e in maniera definitiva, un posto da chiamare casa.
È con questo spirito che si prendono l’Italia, ed è per questo che ci si adattano con tanta velocità.
Alboino muore quasi subito, fatto fuori da una congiura capeggiata dalla moglie e dall’amante di lei, che poi però si uccidono vicendevolmente, con l’appoggio di un esarca bizantino. Fra i Duchi si scatena il caos.
Ma già vent’anni dopo Autàri, divenuto re, non è più solo un capobranco di barbari rissosi: ha chiara in testa la sua idea di Stato e di frontiere. Percorre la penisola, conquista Spoleto e Benevento, giunge fino alla Calabria e lì, in riva al mare, toccando con la lancia una colonna antica sommersa, afferma che è quello il confine del suo regno.È l’idea di Italia, dalle Alpi al mare, che era romana e sarà poi di Petrarca, protetta dai suoi monti dal furor teutonicus. Che non è più quello dei Longobardi, però, ma di tutti gli altri barbari.

Autàri non solo si considera re d’Italia, ma si rinomina alla romana “Flavio”. Come Teodorico, ma anche e soprattutto come Costantino.
Roma e Longobardi. Se litigano col Papa è perché sentono anche l’Urbe come roba loro, perché la penisola, tagliata a metà e senza Roma, non ha senso. E se col Papa si scontrano, è perché oramai nella loro testa sono gli eredi legittimi dei Romani, e il Papa un loro vescovo.

Nel nostro immaginario ritoccato dai Franchi vincitori, è Carlo Magno l’unico possibile imperatore occidentale, colui che rielabora il concetto romano di impero e se ne proclama erede. Ma prima di lui, e in alternativa e in concorrenza, c’erano loro, i Longobardi.
È una loro regina, la bella Teodolinda, a rinverdire i fasti delle imperatrici romane, scegliendo mariti che diventano re, e a cui fa avances con piglio da Sharon Stone.
Sposa dell’ariano Autàri, si converte al cattolicesimo gettando l’ennesimo ponte coi latini suoi sudditi, e fa forgiare un diadema che per secoli incoronerà i re d’Italia. Dentro c’è un chiodo della croce datole dal Papa in persona, trovato a suo tempo da Sant’Elena, la madre di Costantino. Se non è un passaggio di staffetta questo, cos’altro non so.

Anche la figlia Gundeperga è una grande elettrice di re. Suo secondo marito è quel Rotari duca di Brescia che scrive il famoso editto, prima legislazione scritta e unica per i sudditi del regno, che non sono più divisi in barbari e latini come ai tempi di Teodorico il Goto, ma sono tutti sotto una legge comune.

Ecco, sta lì la svolta dei Longobardi: che a un certo punto non c’è più un “loro”, ma solo un “noi”. E questo è un passaggio che non erano riusciti a fare i Goti, ma non sarebbero riusciti a fare da soli nemmeno i Franchi. I Longobardi invece sì. E così via, le famiglie si meticciano e nasce quella che i Greci chiamerebbero koinè, ma siccome sono barbari, loro non sanno bene come chiamarla: la fanno e basta.
Non pensano a proclamarsi imperatori, perché sono interessati all’Italia, e vivono in tempi in cui l’imperatore è ancora unico, ed è quello bizantino. Però le loro abitudini, i loro costumi, persino il loro pensiero si sono romanizzati.

E la penisola è la terra cui appartengono, come dice anche Lopchis, il nonno di Paolo, che preso prigioniero dagli Avari, fa di tutto per tornare nella sua Cividale, anche perché non saprebbe dove altro andare, se non lì.

Non sono più barbari, non sono più estranei, e nemmeno avventizi o infiltrati: hanno gettato le fondamenta per una cultura comune che i Franchi poi diffonderanno.
E se Paolo nella sua vita può abitare indifferentemente a Cividale o a Como, a Pavia o da Arechis e Adalperga a Benevento, a nel Monastero di Cassino, e può sentirsi ovunque a casa, è perché è Longobardo e non solo fa parte di quella koinè, ma è uno dei suoi creatori. Anche quando lo trattengono prigioniero alla corte dei Franchi, dopo la caduta del regno, e deve restare lì, bloccato, pure se trattato come un ospite di un qualche riguardo, lui resta Longobardo e per questo portatore di cultura. Viene dall’Italia e in lui sono confluiti gli ultimi rivoli della civiltà romana, che alla corte di Carlo fanno gola, per nobilitarsi.

Nella nostra testa il Medioevo “vero” inizia con i Franchi, perché è quello dei paladini, dei feudi, dei castelli, delle crociate; è il Medioevo dell’immaginario favolistico, in cui il buon re Carlo Magno dalla fluente barba bianca è un eroe un po’ a mezzo fra Garibaldi e Babbo Natale. Prima c’è il crepuscolo del Tardo antico e l’oscurità dei barbari, e i Longobardi stanno lì, a brancolare nelle tenebre dell’indistinto.
E invece, come il buon Paolo, hanno consumato la loro parabola, partendo feroci conquistatori e finendo colti, ma vinti.
Continuando a vivere in quella terra fra le Alpi e il mare, l’Italia, che era loro, e fondendosi con quei latini che erano oramai loro compagni.

I Franchi vincono, e si prendono tutta l’Europa, e pure il merito di parecchie loro intuizioni: il recupero dell’eredità di Roma, e l’idea che gli abitanti del nuovo impero, indipendentemente dall’origine etnica, sono tutti uguali e sottomessi a un nuovo ordine superiore.

Per duecento anni avevano regnato, i Longobardi, ma capita che leggendo i libri di storia, dove sono condensati in un capitolo di transizione, non ce ne rendiamo neppure conto. Per duecento anni.
Più di quanto siano durati i Franchi, eh.

Autore

  • Mariangela Galatea Vaglio

    Storica infiltrata fra gli archeologi, blogger e insegnante, frequenta le aule scolastiche per mestiere e il web per passione. Ama la divulgazione storica, e scrive perché per comunicare il passato nulla funziona meglio di una storia ben raccontata.

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