Il pane di Angera: dallo scavo alla tavola, i segreti di una delizia millenaria

22 Ottobre 2016
Trasformare la scoperta di cereali antichi in un pane che si vende dal panettiere cambia la percezione del pubblico verso l’archeologia? E il turismo e gli affari ne traggono beneficio? A conoscere la storia del pane di Angera pare proprio di sì. Ecco tutto quello che c’è da sapere su questa bontà antica.
L’archeologia non ha solo l’odore della terra umida e della ceramica bagnata, non è solo sinonimo di scavi o di vetrine dei musei. A volte, l’archeologia ha anche il sapore e il profumo di una pagnotta calda appena sfornata dal panettiere. Capita ad Angera, paese sul Lago Maggiore in provincia di Varese, dove da fine settembre 2015 viene prodotto e commercializzato un pane impastato sulla base di una ricetta ricavata dallo studio dei pani millenari e dei resti di cereali rinvenuti sul territorio. Da poco venduto anche fuori dal paese, è oggi “corteggiato” persino dalla grande distribuzione.
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Il pane di Angera riprende nuova vita © Museo di Angera

Il progetto che ha permesso al pane di Angera di riprendere vita e diventare una realtà croccante, da gustare insieme alla zuppa nei principali ristoranti del paese, si chiama Il profumo del pane e delle castagne ed è stato ideato e diretto da Cristina Miedico, conservatrice del Museo civico di Angera, e da Barbara Grassi, della Soprintendenza Archeologia della Lombardia.

La storia del pane di Angera

Nel pane di Angera si incrociano anni si scavi e di studi sul territorio, dati e reperti. Da un lato ci sono i panini carbonizzati rinvenuti negli anni Settanta nella necropoli romana di Angera, e utilizzati dagli antichi come offerta funebre. Dalle forme ritrovate – che sono moltissime e di buona qualità e che classificano il pane di Angera come secondo per importanza solo a quello di Pompei e dell’area vesuviana – provengono le tre forme attualmente vendute in paese, cioè il quadratus, la treccia e la Tazìna, chiamata così perché il suo aspetto di ciambella senza buco ricorda quello di una ciotola. Dall’altro c’è l’olla da dispensa ricolma di resti alimentari rinvenuta nel 2012 nella villa rustica di Cislago, a una quarantina di km da Angera, che ha dato l’impulso decisivo per la realizzazione del progetto.

È stato il caso a volere che questo reperto eccezionale entrasse in possesso del piccolo museo. Come racconta la stessa curatrice, che Archeostorie ha incontrato in occasione di una delle tante conferenze organizzate proprio nella sede museale per parlare dei reperti rinvenuti sul territorio, “Mi sono trovata in Soprintendenza al momento giusto. Nessuno sembrava aver spazio per l’olla. Ho alzato la mano e ho chiesto di poterla portare ad Angera e di potermene occupare: da lì è nata l’intuizione di poter lavorare su un progetto concreto”.

Il contenitore in ceramica comune, dalla capienza di circa 10 litri, è emerso durante lo scavo diretto da Barbara Grassi in occasione dei lavori per il Collegamento autostradale Dalmine –  Como – Varese – Valico del Gaggiolo. I semi e i frutti praticamente intatti sono stati analizzati dal Laboratorio di archeobiologia dei Musei Civici di Como, mentre il restauro dei reperti è stato condotto dalla ditta Kriterion e finanziato dalla Società Autostrada Pedemontana Lombarda.

La maggior parte del contenuto era costituito da frumento nudo e segale insieme alle castagne, che dovevano essere state aggiunte per rendere l’impasto più gustoso (visto il sapore amaro della segale). La miscela, che non poteva essere divisa, doveva infatti essere usata tutta insieme.

A partire dai dati forniti dal contenuto della dispensa, dalle analisi condotte in precedenza sul pane romano di  Angera, secondo cui le cariossidi (cioè i chicchi) dovevano essere farro e frumento, e dalle fonti latine, come Plinio, che testimonia l’uso del lievito di birra di origine celtica, si è provato a ricostruire la ricetta del pane antico consumato sul territorio. A finanziare il progetto, che oltre al pane ha visto anche una pubblicazione degli studi (scaricabile a questo link ) hanno contribuito anche il Comune di Angera e la Regione Lombardia, con il patrocinio di Expo.

olla di Cislago

L’olla di Cislago. © Chiara Boracchi

Dai reperti alla ricetta

Altra intuizione brillante della curatrice del museo è stata quella di contattare Slow Food. “Ho pensato che l’associazione potesse essere interessata al progetto, dato che ha un centro studi sui cereali antichi. Ho trovato il numero di telefono su internet e subito mi hanno messa in contatto con Alberto Senaldi, la persona che si occupa di rigenerare i semi antichi. Quando i responsabili dell’associazione sono venuti qui, ad Angera, sono stati subito entusiasti del progetto”.

La nuova ricetta si deve alla collaborazione tra Cristina Miedico, Claudio Giombelli, panettiere di Angera, Claudio Mei Tomasi, chef della Trattoria del Porto, e Alberto Senaldi, che ha individuato le farine del territorio che potessero essere più simili a quelle antiche, cioè biologiche, integrali e macinate a pietra. È stata poi realizzata una Deco, cioè una Denominazione comunale di origine: vuol dire che, al momento, la ricetta è protetta dal Comune e può essere richiesta e riprodotta solo dagli angeresi.

Le presentazioni ufficiali del pane di Angera sono avvenute all’Expo di Milano, a fine settembre 2015, e al convegno Icom (International council of museums) di giugno 2016.

​Come il pane di Angera ha cambiato gli angeresi e incuriosito i turisti

“È stato importante per noi far capire il nostro lavoro prima di tutto agli abitanti di Angera. In un anno le cose sono cambiate molto”, continua a raccontare la curatrice del museo. “Il panettiere Giombelli vende circa 25-30 kg di pane cotto con la ricetta antica ogni settimana. Non è molto, ma è bastato per riportare un po’ di clienti nella sua panetteria dislocata rispetto al centro del paese. La Tazina, servita con salse, creme o zuppe in diversi ristoranti, al momento è l’unico prodotto tipico di Angera”.Quanto ci abbiano guadagnato i ristoranti di preciso non si sa ancora: dopo oltre un anno solo uno ha fornito dati precisi, il Nettare di Giuggiole, che nei mesi estivi, cioè quelli di maggior afflusso turistico, ha dichiarato circa 45 coperti di Tazìna di Angera. Un’analisi completa della ricaduta economica di questa iniziativa ancora non c’è.

Si è innescato comunque un circolo virtuoso anche per il museo, che ha visto crescere l’affluenza: i turisti che arrivano in paese assaggiano il piatto tipico locale e vogliono scoprirne la storia, vogliono andare a vedere le forme di pane millenario che hanno ispirato il progetto, l’olla coi semi e gli altri reperti, avvicinandosi così alla ricerca archeologica.

Reperti di Angera nelle provette

Reperti nelle provette. © Chiara Boracchi

Al museo di Angera

Ma cosa vede chi entra nel piccolo museo di Angera oggi? Passata la prima sala, che è dedicata alla preistoria della zona e che ospita anche un Tavolo Tattile pensato per i più piccoli, con riproduzioni di strumenti e armi a cura di Marco Maioli, esperto in archeologia sperimentale e tecnologie della preistoria, la seconda sala è interamente dedicata ai reperti di epoca romana.

La vetrina che ospita le forme carbonizzate di pane di Angera si trova proprio di fronte all’olla di Cislago che, idealmente, “dialoga” coi vecchi reperti per raccontare il legame tra i resti rinvenuti negli anni Settanta e la dispensa trovata nel 2012. Semi e resti alimentari sono esposti in provette etichettate, “Un po’ alla CSI”, precisa Cristina Miedico, per far meglio comprendere anche il lavoro di analisi scientifica che è stato alla base del progetto.

Oltre ai pannelli che raccontano la storia del pane di Angera, per i bambini è stato pensato un angolo con una piccola mola, per spiegare come veniva macinata la farina, e un disegno ricostruttivo di Silvia Di Martino, illustratrice, che racconta il paesaggio agricolo di Cislago in epoca romana.

Dove andare e come fare per assaggiare il pane di Angera

Dal primo maggio 2016, il quadratus, la treccia e la Tazìna possono essere venduti anche fuori dal territorio di Angera, anche se permane il vincolo produttivo. Chi vuole assaggiare questo pane, dunque, per ora è costretto a recarsi in paese, o dal panettiere Giombelli, o in uno dei ristoranti che lo servono, come il Nettare di Giuggiole, la Trattoria del Porto o Bacco.  

“Se poi, come sta accadendo, una grande catena di supermercati si dimostrasse interessata a  venderlo e il panettiere di Angera non dovessere riuscire a produrre la quantità richiesta”, continua Cristina Miedico “sarà possibile, tramite una richiesta specifica al Comune, concedere l’uso della ricetta ma solo nel caso in cui si trovasse un produttore disposto a seguire pedissequamente il disciplinare e a realizzare un packaging adeguato, che comunichi in qualche modo la storia del pane millenario di Angera. Per noi è importante tutelare l’origine”.

La storia del quadratus, della treccia e della Tazìna dimostra che grazie all’archeologia si mangia, letteralmente. E noi… non aspettiamo altro che di poter acquistare il pane di Angera nel supermercato sotto casa.

Autore

  • Chiara Boracchi

    Archeo-giornalista e ambientalista convinta, vede il recupero della memoria e la tutela del paesaggio e del territorio come due facce complementari di una stessa medaglia. Scrive per raccontare quello che ama e in cui crede. Per Archeostorie, coordina la sezione Archeologia & Ambiente ed è responsabile degli audio progetti. Nel tempo libero (esiste?) scatta foto, legge e pratica Aikido.

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