Alla Civita di Tarquinia, alternanza scuola-lavoro per scoprire l’archeologia

9 Gennaio 2018
Il racconto personalissimo e avvincente di Giacomo, studente liceale di Trento, che sulla Civita di Tarquinia ha scoperto cos’è davvero l’archeologia. Grazie a un bel progetto di alternanza scuola-lavoro ideato dall’Università Statale di Milano

Da lontano, a ovest, arriva il luccichio del mare. Tutto intorno dolci colline coltivate a grano, zone di nera terra smossa, poi prati verdissimi dove, lontani, belano greggi di pecore. Tutto il paesaggio è dominato dalle ferle, stranissime piante dal lungo fusto che elevano al cielo i loro ormai secchi ombrelli, simili a una selva di antenne.

Ogni tanto il paesaggio così bucolico e ameno è interrotto da cumuli di pietre, colossali resti di mura, per terra si intuiscono le planimetrie di edifici, porte. Sono le ultime vestigia della florida e potente città di Tarchna, influente membro della dodecapoli etrusca, baluardi che hanno resistito per più di due millenni allo scorrere inesorabile del tempo.

Pietre narranti

Se si passeggia per il Pian di Civita – occasione molto rara, dato che è chiusa al pubblico quasi tutto l’anno – è difficile intuire la città di un tempo, seppure gli antichi ce la descrivono come bella e importante, sepolta com’è sotto metri di terra, distrutta e andata perduta, probabilmente presa con la forza dai Romani e quindi messa a ferro e fuoco. Non c’è quindi il colpo d’occhio che si può avere a Pompei, ma ha un pregio.

Lontano dalla massa dei turisti e dall’attenzione dei media, la Civita, immersa nella natura e nel silenzio, ha ancora molto da dire. Da raccontare su di lei, sui suoi abitanti, il popolo semisconosciuto degli Etruschi, sulle loro tradizioni, sulla lingua, sulla religione… oggi a noi come oltre due secoli fa ai primi archeologi e tombaroli che, per amore della storia o per rivendere le opere d’arte trafugate nelle tombe, salirono sul pianoro e iniziarono a portare alla luce i resti della civitas etrusca.

Se il paesaggio è rimasto lo stesso di quello ottocentesco, oggi le tecnologie hanno fatto passi da gigante in tutti i campi, permettendo uno studio molto approfondito e a tutto tondo, coinvolgendo in uno scavo archeologico anche ingegneri, architetti, esperti di fotorilevamento… È per questo che ancora oggi sono aperti sulla Civita scavi gestiti dalle Università di Milano (dal 1982), Roma La Sapienza (dal 1999) e Verona (dal 2014). Lo scopo è capire maggiormente l’ancora misteriosa civiltà etrusca, oltre che fungere da tirocinio ed esperienza pratica per gli studenti delle Università.

Primo impatto con la Civita

È quindi con molta curiosità che abbiamo accettato di partecipare a una settimana di alternanza scuola-lavoro allo scavo del ‘complesso monumentale’ nell’ambito dello scambio tra il Liceo Prati di Trento e l’Istituto Cardarelli di Tarquinia. Cosa avviene in uno scavo archeologico? Come si opera? Cosa spinge dei ragazzi a passare un’intera giornata sotto il sole, in ginocchio, con una cazzuola in mano? L’archeologia, da noi spesso vista nei film come una disciplina avventurosa, piena di sorprese ed emozioni in stile Indiana Jones, sarebbe stata così anche nella realtà? Queste e molte altre erano le nostre domande alla vigilia della partenza.

Dopo un viaggio in treno durato l’intero pomeriggio, la sera del 22 settembre 2017 arriviamo alla stazione di Tarquinia. Ci troviamo con i nostri compagni di gemellaggio e ognuno si avvia verso la sua famiglia ospite, dove l’accoglienza è caldissima: in men che non si dica ci sentiamo a casa!

La mattina dopo vediamo per la prima volta la Civita: nell’ambito delle Giornate Europee del Patrimonio, tutta l’area altrimenti chiusa al pubblico viene aperta con visite guidate e passeggiate all’interno dell’area archeologica; gli abitanti di Tarquinia ma anche i turisti occasionali possono cogliere quest’occasione unica per vedere gli scavi ancora in corso d’opera, gli archeologi al lavoro e conoscere ultime scoperte effettuate.

Subito al lavoro: guide provette

E fin da subito anche noi ‘entriamo in servizio’: la professoressa Giovanna Bagnasco dell’Università di Milano ci coinvolge nel ruolo di guide per i visitatori, con il compito di condurre il gruppo da una tappa all’altra delle quattro predisposte lungo il percorso. Può sembrare un’operazione banale, ma il fatto di dover guidare più di quaranta persone senza che nessuno rimanga indietro o si perda, unito al fatto che è la prima volta in assoluto che vediamo la Civita, la rende un compito abbastanza impegnativo; a chi ce lo chiede, poi, dobbiamo dare alcune informazioni basilari sull’antica città studiate nei giorni precedenti, ed è molto interessante vedere come i dati e le nozioni apprese trovino corrispondenza nella realtà.

Il tour di Tarchna inizia dal ‘complesso monumentale, insieme eterogeneo di strutture, molte delle quali ancora con funzioni sconosciute. Dal ritrovamento di un inghiottitoio naturale che veniva considerato una sorta di tramite, un accesso al mondo dei Morti da quello dei Vivi, si è capito che era un luogo legato alla religione. Inoltre delle canalette che si gettano nella dolina dagli edifici circostanti, dimostrano che quegli edifici servivano come luoghi sacri per il sacrificio di animali, il cui sangue scorreva poi nelle canalette come offerta. Altri ritrovamenti importanti sono degli oggetti rituali sotterrati nelle vicinanze, tra cui una tromba-lituo, di cui nel corso delle visite aperte al pubblico è stata addirittura suonata una riproduzione.

Ci si sposta poi a Porta Romanelli che prende il nome da un importante archeologo che condusse lì le sue campagne. Della porta rimangono oggi pochi resti, ma gli enormi blocchi di pietra lasciano immaginare la maestosità dell’opera compiuta e di tutta la cinta muraria. Mura, quelle di Tarquinia, estremamente massicce e pressoché inespugnabili, poste anche in alcune zone dell’abitato dove non sarebbero state necessarie, ma che garantivano la visione dal mare di tutta la ricchezza e potenza della città.

La terza tappa è l’Ara della Regina, che in realtà era il più grande e importante tempio della città, di cui oggi rimane solo il basamento, essendo stato edificato in legno ricoperto di terracotta. In realtà, uno dei reperti più belli e spettacolari di tutta la civiltà etrusca viene proprio da qui: sono gli stupendi Cavalli Alati, una lastra di terracotta facente parte del frontone del tempio.

Si conclude con la visita della Domus del Mitreo, da cui proviene la statua del dio Mitra sottratta al mercato clandestino; qui lo scavo è aperto solo da due anni, e quindi la domus è ancora gran parte sotto terra.

Tarquinia, la Civita. Progetto di alternanza scuola-lavoro dell'Università di Milano

Tarquinia, la Civita. Studentesse in attività nel progetto di alternanza scuola-lavoro dell’Università di Milano

A cosa serve la psicologia ambientale?

Il lunedì successivo iniziamo la nostra esperienza vera e propria. Siamo ospitati negli scavi dell’Università di Milano dove studenti, affiancati da archeologi e altri esperti, stanno portando alla luce una vastità di strutture dalle funzioni non ancora ben note. Il nostro lavoro è suddiviso in tre turni: nella prima parte della giornata svolgiamo delle attività con la nostra tutor per l’Alternanza scuola-lavoro, la professoressa Eleonora Riva, psicologa ambientale, mentre nell’ultima parte della mattinata siamo a disposizione degli archeologi per i più svariati compiti. Dopo la pausa pranzo, si ricomincia il lavoro fino alle quattro del pomeriggio.

La professoressa Riva ci spiega la sua disciplina, la psicologia ambientale: si tratta dello studio della relazione che si instaura fra l’uomo e l’ambiente, sia esso naturale o antropizzato. È una branca della psicologia relativamente giovane, e per questo non se ne sente parlare molto spesso, ma è molto interessante.

Per cercare di capire il nesso fra uomo e ambiente bisogna prima di tutto che l’ambiente in questione sia attraente e lo stimoli: è da qui che parte la nostra esperienza. Dato che non ci è possibile viaggiare fisicamente nei nostri ‘luoghi dell’anima’, utilizziamo delle foto che ci mostriamo a vicenda, spiegando le ragioni della nostra scelta: può essere un luogo evocativo, singolare, dove abbiamo passato molto tempo, oppure un luogo misterioso… E se un luogo tale si trovasse anche vicino a noi? Ecco quindi che andiamo a ‘caccia’ di scatti fotografici in un luogo, come la Civita, che si presta alla perfezione.

In un’altra attività, invece, vediamo come i luoghi che sono più impressi nella nostra mente, quelli che ci ricordiamo meglio, quelli dove viviamo o che ci stanno a cuore sono più grandi, dettagliati e posti al centro della cartina che disegniamo: è la teoria dell’egocentrismo, che si traduce poi anche sui planisferi nell’eurocentrismo. Innumerevoli gli altri spunti di riflessione sulla materia, in cui ragioniamo insieme, ci confrontiamo ed esponiamo le nostre opinioni.

Questa parte di attività è stata per tutti una sorpresa: perché era la prima volta che sentivo nominare questo settore della psicologia, e per l’interesse che mi ha suscitato. Mentre eravamo sicuri delle attività di scavo che avremmo fatto durante la settimana, appunto, non avevo capito bene di cosa avremmo trattato con la nostra tutor. Quando ci è stata presentata l’attività, il primo giorno, ero addirittura un po’ scettico, ma mi sono dovuto ricredere mano a mano che il tempo passava, grazie agli argomenti estremamente attuali e interessanti, e alla metodologia didattica basata sulla lezione interattiva con attività e dibattiti.

Sullo scavo!

Dopo una breve pausa verso metà mattina le attività riprendono sotto la direzione della dottoressa Matilde Marzullo, responsabile degli scavi. Chiaramente noi aspiranti archeologi non possiamo iniziare a scavare subito, ma il ‘complesso monumentale’ ci riserva molti altri compiti, tutti divertenti e istruttivi al tempo stesso: laveremo i cocci ritrovati nei vari settori, aiuteremo gli architetti nella musealizzazione dell’area, ci caleremo in un ipogeo, assisteremo a lezioni insieme agli universitari e, finalmente, proveremo l’ebbrezza di scavare.

Veniamo subito divisi in gruppetti e assegnati ai vari settori in cui è diviso lo scavo: alcuni vanno nell’area dove si sta scavando un pozzo, calandosi con imbragature e attrezzatura da speleologia ed estraendo con una carrucola il materiale – ovvero tegole, cocci e pietre – che vi era stato gettato come in una sorta di discarica; altri sono assegnati ai tre settori limitrofi all’ipogeo dove, come del resto in molti altri punti dello scavo, stanno venendo alla luce diverse strutture la cui funzione non è ancora nota.

Io vengo scelto per il settore Q; anche in questo caso, le prove e i reperti sono troppo pochi per definire l’edificio ritrovato, tuttavia sono stati rinvenuti molti frammenti di tegole e qualche piccola fibula in bronzo. L’ipotesi è che si tratti di una casa in muratura con tetto a coppi e non di una capanna, mentre le ossa animali non sembrerebbero relative a sacrifici poiché frammentarie, ma potrebbe trattarsi di animali macellati per essere poi mangiati.

Tarquinia, la Civita. Studenti sullo scavo in alternanza scuola-lavoro

Tarquinia, la Civita. Studenti sullo scavo nel progetto di alternanza scuola-lavoro dell’Università di Milano

Lavare cocci e plasmare paesaggi

Ci colpisce soprattutto la massiccia quantità di frammenti di ceramica, dalla più grezza al finissimo bucchero nero etrusco. Il nostro compito principale è quindi quello di lavarli, con l’ausilio di spazzole varie da immergere in acqua per tentare di rimuovere la terra e le incrostazioni dai pezzi, che saranno poi divisi per settore e data di ritrovamento, e stoccati in un magazzino per essere successivamente catalogati e studiati.

È una soddisfazione molto grande vedere mano a mano emergere da un blocco di terra un pezzo di cui si erano intuite le forme, vederlo pulito e liscio, scoprendo magari qualche decorazione, incisione, o ammirando solo la perfezione della forma del bordo di un’anfora, il tratteggio inciso su un pezzo di bucchero che imita un cesto di vimini. Gli archeologi, inoltre, sono molto contenti di fornirci spiegazioni su ogni pezzo che laviamo, e nascono interessanti chiacchierate storico-artistiche.

Non sono solo gli archeologi a lavorare nell’area: ogni volta che un settore viene finito di scavare, infatti, entrano in gioco gli architetti specializzati in restauro del Politecnico di Milano, che si occupano di musealizzarlo, o per lo meno di renderlo pronto a una futura fruizione pubblica. Se per esempio un muro a secco è crollato dopo essere stato portato alla luce, o è stato necessario abbatterlo – procedura lecita, se l’archeologo ipotizza di trovare al di sotto qualcosa di utile per il suo lavoro -, se del materiale, come le canalette, necessita di essere rimesso in posizione, se il fondo di scavo è troppo accidentato, gli architetti si occupano di consolidare con malta e cocciopesto, ricostruire, livellare il terreno, posare teli antivegetativi e stendere infine uno strato di ghiaia. Capita che abbiano bisogno di qualche paio di braccia in più per svolgere questi compiti, e noi siamo lieti di prestarci.

Il mistero in archeologia c’è

Una dei luoghi più interessanti, misteriosi e avventurosi dell’area archeologica, relativamente al percorso per accedervi, è certamente il locale ipogeo, che presenta al suo interno un macabro rinvenimento: dopo essere scesi per una stretta e ripida scala, il dromos, aiutandosi con una corda, ci si trova in un ambiente circolare che si allarga alla base, con una volta, in parte crollata, sorretta da pilastri.

Si sa che è stata costruita in epoca romana, dato che è interamente ricoperta di un intonaco impermeabile tipico di quell’epoca, e che serviva a conservare l’acqua, data la presenza di canalette per convogliare l’acqua piovana, ma è ignoto il motivo del ritrovamento al suo interno: sotto agli strati di terra, infatti, gli archeologi hanno trovato i resti di più di sessanta individui, che si presentano ammassati gli uni sugli altri e senza alcun oggetto di altro tipo, quindi presumibilmente nudi, e di alcuni animali, tra cui un cavallo. L’integrità degli scheletri – non furono quindi gettati dall’alto – non fa che aumentare gli interrogativi e le ipotesi su ciò che è accaduto: una sepoltura dopo un’epidemia, una razzia finita con il massacro della popolazione, offerte sacrificali, anche umane?

Quel che è certo è che le ossa possono dare moltissime informazioni, come ci spiega l’antropologa che ci tiene una lezione pomeridiana: mediante il confronto con manuali, si può determinare il sesso della persona, l’età e, in alcuni casi, anche il lavoro che faceva. La ‘proprietaria’ dello scheletro che ci viene affidato per l’analisi è una donna di sessant’anni con ernie, artrite e segni del lavoro, probabilmente nei campi.

Strato dopo strato

In qualche occasione proviamo anche a scavare: esperienza che, fino a che non la si ha provata, è difficile da descrivere. Si procede per strati, ossia si rimuovono, uno alla volta, tutti i depositi che hanno lo stesso colore, caratteristiche o conformazione: essi sono i risultati di azioni umane, come la demolizione e la ricostruzione, o della natura, come un’alluvione o una frana. Si riescono così a datare tutte le fasi della zona di scavo in questione tramite i reperti o altri indicatori.

Un pomeriggio partecipo alla rimozione dell’ultimo strato prima di un pavimento di pietra, emozionante da veder comparire sotto la terra smossa; in un altro momento ho l’autorizzazione a rimuovere le pietre che costituivano un muretto per scoprire se lo strato continuasse sotto o meno, segno che è necessario scegliere, per importanza, quali reperti mantenere e quali abbattere. Al contrario di quanto mi aspettassi, scavare è un lavoro scomodo, meticoloso e alquanto faticoso, dato che bisogna stare chini sotto il sole. Ma l’emozione di veder affiorare un pavimento o un coccio ripaga la fatica.

Nel pomeriggio, finite le attività, visitiamo il bel centro storico di Tarquinia, cittadina medievale con stradine, palazzi e chiese romaniche, e, fra un gelato e l’altro, non manchiamo di vedere il Museo archeologico che contiene i pezzi più importanti dell’arte etrusca, e la necropoli dei Monterozzi, dove dopo duemila anni le tombe dipinte ci accolgono con una vitalità nelle scene affrescate che sembrano ultimate ieri.

Uno scavo archeologico non finisce mai

È con un po’ di malinconia, quindi, che lasciamo Tarquinia, consci di aver vissuto un’esperienza unica e irripetibile a cavallo fra storia, arte, manicaretti, la disponibilità e la simpatia degli amici che ci hanno ospitato. Partiamo con il desiderio di tornare a trovarli e a rivedere la cittadina dove è rimasto un po’ del nostro cuore, per scoprire magari l’area in cui abbiamo scavato trasformata in un museo!

E l’archeologia, la grande protagonista? È difficile trovare una risposta alle domande iniziali, ma è certo che in una settimana ci siamo avvicinati a questo affascinante mondo, cercando di comprendere i meccanismi che ne stanno alla base. Potrà sembrare presuntuoso, ma forse ho intuito il senso di ciò che muove giovani poco più grandi di noi a dedicarsi agli scavi, la loro voglia di scoprire cosa si nasconda dietro a un semplice coccio: è l’amore per la storia, l’arte, la vita dei popoli di cui oggi si sono perse le tracce. Che è poi quello che, in versione cinematografica, spingeva Indiana Jones a cercare l’Arca perduta!

Ed ecco quindi che trovare il motivo, per esempio, della scomparsa repentina e misteriosa degli Etruschi, trasposta al giorno d’oggi, fornisce spunti di riflessione per l’attualità, perché, per citare il mio caposettore Jacopo, “uno scavo archeologico non finisce mai”, c’è sempre qualcosa di nuovo e intrigante da scoprire.

Autore

  • Giacomo Rinaldo

    Ho sedici anni e abito a Trento, dove frequento il terzo anno del Liceo Classico "G. Prati". Le mie più grandi passioni sono la musica, il disegno e la scrittura. Sono uno scout e amo molto la montagna. Mi affascinano il passato e le materie di studio a esso collegate, come l'archeologia e la storia, ed è quindi con grande entusiasmo che ho partecipato all'esperienza di scavo a Tarquinia lo scorso settembre.

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