Affrontare l’Is con l’archeologia: intervista a Luca Peyronel

28 Dicembre 2015
Scavare in zone di guerra: per alcuni archeologi è inevitabile, se vogliono continuare le proprie ricerche. Come ci racconta Luca Peyonel

Quest’anno la campagna di scavo della Missione archeologica italiana nella piana di Erbil, nel Kurdistan iracheno, è stata molto breve: due sole settimane, per ragioni di sicurezza. I due siti indagati nei pressi di Erbil – l’antica Arbela, che in epoca assira fu sede di un importante santuario – si trovano infatti a pochi chilometri dal confine con i territori controllati dall’Is. Ma perché gli archeologi continuano le proprie ricerche in un contesto geopolitico così difficile? Come cambia il loro lavoro, quando vicino agli scavi si combatte una guerra? E quale significato può assumere la ricerca archeologica in quelle terre martoriate?

Ne parliamo con Luca Peyronel, il direttore della missione rientrato da poco dal Kurdistan, e professore associato di Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università Iulm di Milano.

Perché sono importanti le ricerche nella piana di Erbil?
In generale la regione del Kurdistan iracheno, che corrisponde a una parte della Mesopotamia settentrionale, a est del Tigri, è stata pochissimo esplorata in passato: non sono state realizzate carte archeologiche, mappature di siti, sequenze cronologiche. Ed è un’area di grande rilevanza storica: basti pensare che siamo nel cuore dell’impero assiro, ma anche nei luoghi dove è passato Alessandro Magno scontrandosi con l’esercito persiano.

Da alcuni anni, invece, sono state avviate ricerche sistematiche da parte di diverse missioni straniere, in collaborazione con le direzioni delle antichità locali. La nostra missione opera a circa 30 chilometri a sud ovest della città moderna di Erbil. Abbiamo ottenuto tre anni fa la concessione per effettuare ricerche in un’area dove si trovano due siti, Helawa e Aliawa, che sono molto interessanti perché hanno avuto una vita lunghissima: dalla prima epoca neolitica, cioè dall’epoca della domesticazione delle specie vegetali e animali, alla prima età islamica. Attraverso le nostre ricerche riusciamo dunque a ricostruire gran parte della storia di quel territorio.

È cambiato il lavoro degli archeologi, considerato il contesto geopolitico?
In effetti il nostro lavoro è cambiato sensibilmente. Il territorio in cui operiamo è abbastanza vicino alla zona in mano all’Is, sulla linea del confine si combatte, anche se i Peshmerga curdi hanno ripreso saldamente in mano la situazione rispetto all’anno scorso. Nell’agosto del 2014, infatti, dopo la presa di Mosul, Daesh aveva conquistato terreno nella regione del Kurdistan iracheno e aveva anche occupato Kirkuk. Quasi tutte le missioni archeologiche straniere erano state annullate compresa la nostra, che sarebbe dovuta partire a settembre. Quest’anno invece siamo stati tra i pochissimi a poter effettuare ricerche sul campo nella piana di Erbil, e speriamo tanto di poter riprendere le attività in modo sistematico l’anno prossimo. Quest’anno la nostra strategia è stata di completare lo studio dei materiali raccolti nella campagna precedente, che si trovano al museo archeologico di Erbil, e di proseguire la ricognizione sul territorio nei due siti, sempre con la costante presenza di una o due persone della Direzione delle antichità. È stata un campagna intensa con ritmi di lavoro serrati: al museo facevamo schedatura di oggetti e ceramica, documentazione grafica e fotografica, catalogazione e confronti con i materiali da altri insediamenti della regione; sui siti, raccolta sistematica di materiali in superficie, topografia, indagini geo-archeologiche. E in questi giorni stiamo iniziando le analisi di laboratorio su ceramiche e manufatti in ossidiana campionati al museo, che consentiranno di raccontare la lunga e complessa storia di quegli oggetti attraverso tracce invisibili a occhio nudo.

Avete avuto paura? Com’è la situazione attualmente?
No, per il momento la situazione nella provincia autonoma del Kurdistan è sotto controllo. I siti sono tutti tutelati, e né io né gli altri colleghi abbiamo registrato attività di scavi clandestini. In particolare nella zona a nord, Daniele Morandi Bonacossi dell’Università di Udine ha compiuto una lunga campagna archeologica riscontrando sempre una situazione piuttosto buona. Tutti i materiali studiati vengono poi riportati nei musei centrali, e quello di Erbil è presidiato e controllato costantemente da forze di polizia.

A proposito di forze di polizia: cosa pensa dei Caschi blu della cultura?
È un’iniziativa certamente importante. Non è ovviamente pensabile che i Caschi blu vadano adesso nei territori controllati dall’Is, tuttavia è necessario dotarsi di un’organizzazione pronta a intervenire dopo una ripresa del controllo nelle aree che sono oggi del Califfato. Inoltre di un’organizzazione capace nel frattempo di effettuare, per esempio, un capillare monitoraggio satellitare: è necessario produrre report settimanali con foto che mostrino immediatamente se la situazione è cambiata e se vi sono stati scavi clandestini, evidenziando anomalie nel terreno. Rispetto alle distruzioni dei monumenti, che hanno certo maggiore risonanza mediatica, il saccheggio dei siti archeologici è altrettanto drammatico perché assomma la distruzione del contesto alla piaga del traffico dei reperti sul mercato nero. Si tratta oramai di un fenomeno sempre più esteso e che ha assunto una connotazione per noi inedita, perché gli scavi e la vendita di reperti sono di fatto autorizzati e incentivati nei territori dell’Is.

Cosa si può dire del messaggio mediatico trasmesso da Daesh?
I video della distruzione del patrimonio e della decapitazione dei prigionieri viaggiano in parallelo. Il saldarsi di queste due comunicazioni si è avuto quando è stato ucciso Khaled al-Asaad, lo storico soprintendente del sito di Palmira. Al di là della motivazione fondamentalista iconoclasta Is sembra voler dire, a noi e alle comunità locali, che la ricerca archeologica e la conseguente ricostruzione delle culture antiche sono state in quei luoghi condotte, guidate e indirizzate quasi sempre dall’Occidente. È dunque passato “falso” che a loro non interessa e che va distrutto. Questo messaggio è pericolosissimo perché riduce il passato a qualcosa da cancellare nelle sua consistenza materiale, o da sfruttare esclusivamente come fonte di guadagno economico attraverso il saccheggio dei siti.
Dovremmo certo oramai ripensare completamente il nostro lavoro, che in futuro non potrà più essere lo stesso. Ora più che mai dobbiamo pensare a tutti gli aspetti che riguardano la tutela, la conservazione, la comunicazione, la valorizzazione. È la nostra capacità progettuale che deve contrapporsi alla distruzione dell’Is. Questi aspetti, che già in Italia sono strettamente legati tra loro, in questi luoghi devono esserlo ancora di più.
Il legame uomo-natura-cultura è inscindibile. Quando lo si interrompe si violenta l’essenza stessa della civiltà umana. Senza non ci può essere futuro.

Quanto conta la divulgazione?
Moltissimo. Per noi archeologi del Vicino Oriente, ha assunto una valenza etica di impegno concreto in contrapposizione alle distruzioni dell’Is. E non solo: raccontare questi luoghi attraverso le nostre ricerche e i nostri scavi, ci permette di aiutare le autorità locali a raggiungere un pubblico sempre più ampio, informando e trasmettendo valori culturali positivi. Dobbiamo poi essere pronti per la ricostruzione, una volta ripreso il controllo dei territori. Ci troveremo di fronte un quadro devastante: salvare la memoria del passato significherà dare al mondo un messaggio positivo.

Le vostre esperienze possono essere importanti anche per l’Occidente?
Hanno un valore di testimonianza e fanno conoscere realtà storico-archeologiche ignote o pochissimo note. La conoscenza della Mesopotamia, per tradizione occidentale, è fortemente distorta perché filtrata dai racconti degli scrittori Greci o dalla Bibbia. Riportare l’attenzione su questi luoghi dell’Oriente e farlo in modo scientificamente corretto, è dunque molto importante perché la nostra civiltà affonda le radici in quel mondo.

Si sente un mediatore culturale?
Assolutamente. Il mio lavoro all’università ha una doppia faccia: un aspetto è legato alla ricerca sul campo nel Vicino Oriente, un altro al laboratorio di comunicazione e valorizzazione archeologica ArcheoFrame. Ho un’esperienza di lavoro più che ventennale in Siria, a Ebla: negli ultimi anni ci eravamo concentrati proprio sui progetti di comunicazione integrata come l’apertura del parco archeologico, la valorizzazione del museo e una forte interazione con le comunità locali. Questo nostro lavoro, per noi centrale, si proiettava nel futuro perché i custodi di questi luoghi erano non solo la locale Direzione delle antichità ma anche gli abitanti dei villaggi. Questo processo si è violentemente interrotto nel 2011 con l’inizio della crisi siriana ed è stato ripreso faticosamente solo in alcune zone (per esempio nel Kurdistan iracheno e nel sud dell’Iraq). Noi non siamo mai solo ricercatori che operano sul campo, ma anche professionisti che possono fare da ponte con le Direzioni delle antichità e gli enti che agiscono sul territorio: “comunicazione” deve essere la nostra parola d’ordine, sempre.

Autore

  • Chiara Boracchi

    Archeo-giornalista e ambientalista convinta, vede il recupero della memoria e la tutela del paesaggio e del territorio come due facce complementari di una stessa medaglia. Scrive per raccontare quello che ama e in cui crede. Per Archeostorie, coordina la sezione Archeologia & Ambiente ed è responsabile degli audio progetti. Nel tempo libero (esiste?) scatta foto, legge e pratica Aikido.

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